Quando cerchiamo di ricostruire la tradizione alimentare italiana, non possiamo prescindere dall’ inserirla in un contesto storico ben più ampio, quello europeo. La cucina europea inizia a svilupparsi come entità ben definita già dall’alto Medioevo, quando due grandi istanze iniziano, quasi costrette, a convivere; stiamo parlando della cultura alimentare germanica e di quella romana. La prima incentrata sulla caccia, sulla pastorizia e la raccolta di prodotti spontanei, la seconda, invece, vede alla base della piramide alimentare il grano, la vite e l’olivo, simboli di vita cittadina e agricola. Specchio di questa universalità della cucina italiana inserita in una più larga tradizione, sono proprio i ricettari, che dal 1300 iniziano a muoversi proprio in senso europeo, più che italiano.
Alla fine del XIII secolo compare, forse a Napoli, il primo ricettario italiano di cui si ha notizia, il Liber de Coquina. Già in questo primo esperimento di classificazione delle ricette italiane, si ha ben chiara la definizione geografica dei piatti, a testimonianza che già nel Medioevo si credeva all’esistenza di specialità locali. Il Liber ha fornito un eccellente modello sul quale costruire tutti i ricettari successivi soprattutto in Italia, Germania e Francia. Nel 1400, invece, compare in Italia una nuova e importantissima figura, quella di Martino de Rossi, la firma più importante nella storia della cucina italiana.
La sua opera Libro de arte coquinaria è espressione di una cultura gastronomica interregionale, poiché si ha notizia che de Rossi abbia lavorato in Lombardia, Roma e Napoli. Altra personalità importante, destinata a rivoluzionare il concetto di cucina, e ad assimilarlo a noi più da vicino, è Bartolomeo Sacchi che scrive un vero e proprio trattato di arte culinaria De onesta voluptate et valetitudine. In quest’opera il richiamo a Martino de Rossi è diretto, ma qui le ricette iniziano ad inquadrarsi in un ampio contesto culturale e scientifico; possiamo definire il Sacchi nutrizionista ante litteram, uno studioso sia di scienza che di letteratura, che, come un investigatore, scova nei libri classici, tutte quelle informazioni utili a far si che si possano ricostruire e comparare le diverse caratteristiche alimentari. Una sorta di “cucina del tempo”, dove le pietanze sono trasversali, mangiate dagli imperatori prima e dalla gente comune ora.
Ma, se fossimo catapultati come per magia in quei tempi così remoti, e invitati da un ricco signorotto locale a pranzo o a cena, cosa ci troveremmo sulla tavola? Cosa voleva dire “mangiare all’ italiana”? Da tutti i ricettari apprendiamo che in Italia, ad essere consumate maggiormente, erano le verdure, per questioni sia di clima che di povertà. Nel 1500, invece, i carciofi diventano di gran moda, e assieme ad essi, per la prima volta, in un ricettario napoletano, compaiono anche le melanzane, importate dagli arabi precedentemente, ma che non avevano mai goduto di buona sorte. Le melanzane erano considerate come un cibo quasi denigratorio, che poteva essere mangiato solo da gente di basso rango e dagli ebrei.
Grandissima rilevanza ebbero, sempre nel ‘500, tutti i prodotti che iniziavano ad essere importati dalle Americhe. Lunga fu la diffidenza degli italiani nei confronti delle patate. I primi viaggiatori che approdarono sulle nuove coste americane, trovarono il gusto della patata simile a quello delle castagne e, ovviamente, non gli diedero molto spazio nella cucina nostrana, fino al 1700, quando le carestie costrinsero noi italiani ad iniziare ad apprezzare e a cucinare le patate. Altro must della cucina italiana era, ovviamente la polenta, fatta però con farina di farro. Ma la polenta lasciò il segno in tutti i ricettari italiani dal Medioevo in poi, e tante furono le varianti che si potevano trovare; c’era la polenta di avena, di orzo, di miglio. Inoltre tra la fine dell’impero romano e gli inizi del Medioevo si iniziò a coltivare la segale che divenne il principale ingrediente per la produzione del pane.
Il cibo simbolo del “mangiare all’italiana”, la pasta, era già conosciuto ai tempi degli antichi romani, ma solo durante il Medioevo, la consuetudine di mangiarla incalza e incalzano anche le varianti in cui essa poteva essere preparata e presentata. Durante l’impero romano la pratica di impastare acqua e farina era abbastanza comune. Ritornando al Liber de coquina, qui viene spiegato il modo più adatto per condire le lasagne (o Lagane) e inoltre, viene illustrato un tipo di pasta, i Corsetti rotondi e oblunghi e cavati con un dito, simili ai moderni Cavatelli genovesi o provenzali. Nel Medioevo invece si parla già di bollitura e forme. L’essiccazione della pasta, come ben sappiamo, è di paternità araba, e compare già nel IX secolo e nel XII secolo in Sicilia, dove si viene a diffondere l’uso delle paste lunghe, che nel Liber verranno chiamati con il nome di Ancia Alexandrina di semola apula.
Il Maestro Martino (alias Martino de Rossi di cui abbiamo parlato prima), distingue altri due tipi di pasta molto in voga nel Medioevo, i Maccaroni Siciliani, pasta corta e forata, e i Maccaroni Romani, che sono l’equivalente delle nostre moderne fettuccine. Sempre il de Rossi, specifica che la cottura della pasta doveva essere molto lunga. Chissà perché; la cottura “al dente” inizia a diffondersi solo nel ‘600 grazie al Del Turco che consiglia, appunto, di non cuocere troppo la pasta. Pratica comunissima già dagli albori dell’uso della pasta, è l’abbinamento fatto con il formaggio. ed è proprio grazie a questo abbinamento che nel Medioevo iniziano a comparire le prime paste ripiene.
Ricetta simbolo della cucina rinascimentale è la Torta Parmesana, che vede per la prima volta, impiegata una terminologia scientifica per la distinzione delle paste e degli ingredienti. Questa ricetta così si presentava a chi, in una cucina del 1500 si approcciava all’arte culinaria:
Sei strati di ripieno nello involucro di pasta: pollo fritto con cipolla e spezie, ravioli al formaggio bianchi e verdi, salsicce di carne e prosciutto, carne di maiale con uova, salsicce di interiora, ravioli di mandorle e zucchero e su ogni strato datteri e spezie. Il raviolo qui si identifica come il ripieno del tortello, che può essere contenuto nella pasta ma non necessariamente, il ripieno può essere anche usato separatamente.
L’approfondimento della cucina Medievale, deve spianare la strada verso i successivi e sicuramente più importanti ricettari, che oltre a preservare le tradizioni culinarie italiane, hanno posto delle solide basi per la rivoluzione linguistica che dal ‘700 in poi ha visto protagonista la nostra penisola.
Basti pensare al più importante ricettario della storia d’Italia: La scienza in cucina, di Artusi. Artusi media tra l’italiano e le traduzioni dialettali, essendo un attento osservatore del lavoro che precedentemente era stato fatto in altri ricettari, e la rivoluzione generata dal suo lavoro si inserisce in un clima di nazionalismo e sensibilità pedagogica. Se l’Italia ha una radicata coscienza dell’arte culinaria, probabilmente lo dobbiamo proprio al maestro Artusi, il quale oltre a riformare la tradizione, riformula la terminologia alimentare. Questa rivoluzione linguistica non nasce per costringere i cittadini italiani a sedersi ad un’unica tavola, sia ben chiaro, ma permette a tutti noi di comunicare le nostre diversità, le nostre identità.
Ed è proprio quello che succede nella moderna letteratura culinaria. Tanto un cibo è lontano dalle nostre usanze e tradizioni, tanto più ci incuriosisce e stuzzica l’appetito. La popolazione mondiale è sempre più interessata alla cucina e al piacere, anche visivo, dato dal cibo ed è forse per questo motivo che il più grande contenitore di ricette è diventato internet. Blog tematici sono diventati moderni Liber de Coquina, e tutti noi, come novelli apprendisti, ci avviciniamo alla materia viva del cibo, con curiosità e passione, gioie e dolori, ma soprattutto dedicando quel tempo prezioso che ci permette di prenderci cura di noi stessi e nei nostri cari. Non c’è migliore prova d’amore se non cucinare un ottimo piatto di lasagne.
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