ECONOMIA

Il boom dell’alimentazione vegana tra etica ed economia

Intendiamoci. Seguire un principio di vita etico è sicuramente un valore positivo, tanto più, quando il principio che si segue è espressione del rispetto per la vita e dell’attenzione ai bisogni di altri esseri viventi. E quello che sta accadendo, da qualche anno a questa parte, grazie alla diffusione del movimento vegano, è qualcosa che, proprio da questo punto di vista,  ha pochi precedenti nel recente passato. In termini di diffusione, probabilmente, soltanto le lotte ambientaliste avutesi a cavallo tra anni ’80 e ‘90 intorno ai problemi del surriscaldamento globale, della caccia alle specie in via d’estinzione e della lotta all’inquinamento, possono reggere il confronto di una forte rivoluzione che, prima di essere solo alimentare, è soprattutto etica e culturale. Stando al rapporto Eurispes 2014 infatti, sono 4,2 milioni gli italiani che seguono una dieta vegetariana o vegana, pari al 7,1% della popolazione, con un aumento del 15% rispetto alla rilevazione precedente che peraltro non sembra arrestarsi grazie anche alla popolarità che molti cuochi vegan stanno ottenendo attraverso i mezzi di comunicazione. Ma, a beneficio dei lettori meno avvezzi ai costumi culinari, di cosa parliamo quando ci riferiamo al veganesimo? Essenzialmente, si tratta di una filosofia alimentare, evoluzione del “vegetarianesimo”, che importa l’abitudine di alimentarsi senza far ricorso a proteine animali e vieta, a chi vi aderisce, di nutrirsi anche di qualsiasi altro alimento che sia derivato da un essere animale. Tuttavia, se il vegetarianesimo è pratica insegnata da secoli presso molti popoli del mondo – basti pensare che il primo a parlarne come di un vero e proprio obbligo fu Pitagora – il veganesimo sembra costituirne evoluzione moderna composta tanto da ragioni etiche quanto da ragioni economiche.

Alcuni esempi di portate vegane

I prodotti vegani sono infatti ormai diventati prodotti di consumo a tutti gli effetti, diffusi in molti supermercati delle nostre città, dove ormai il reparto vegano non è più un’eccezione , ed acquistabili facilmente anche via internet. Giocoforza, la costante diffusione del fenomeno, ha portato sempre più aziende a commercializzare prodotti bio-vegan con un giro d’affari notevole: l’Italia è ad esempio il primo paese europeo per esportazione di cibi bio, gran parte dei quali diretti verso la Germania, con un giro di affari che, al netto del mercato interno, supera il valore di tre miliardi di euro. Nonostante l’ampia diffusione però, i costi degli alimenti bio-vegan si rivelano ancora tali da non consentire a tutti di praticare questa filosofia alimentare. Per avere qualche esempio, basta cercare tra i prodotti più diffusi nelle diete vegan, ricompresi tra i primi ed i secondi di un normale pasto completo: così si scopre che, per 250gr di pasta si possono spendere dai 2 ai 7,50€ a seconda che si tratti di semplici pennette di riso oppure di fusilli a base di quinoa; che in termini di costo al kilogrammo significa un esborso tra i 10 ed i 30 euro. Ed i costi, non si abbassano quando si passa ai secondi piatti. Tra questi,due alimenti molto diffusi, sono il Seitan ed il muscolo di grano che sembrano fatti apposta per rispondere ad una delle maggiori obiezioni che vengono mosse alle diete vegan: “senza l’apporto di proteine non è possibile condurre una dieta equilibrata”.

Muscolo di grano: un alimento altamente proteico sostitutivo della comune carne

Muscolo di grano: un alimento altamente proteico sostitutivo della comune carne

Al contrario del luogo comune, sia il Seitan che il muscolo di grano, hanno il loro grande punto di forza nell’essere alimenti ricchi di proteine, ed in quanto tali, del tutto sostitutivi dal punto di vista dei nutrienti rispetto alla comune carne. Per questi alimenti però, il costo è notevolmente più alto dell’equivalente di derivazione animale: per 130 gr di Seitan si spendono circa 3,00€  e per 200 gr di muscolo di grano 4,00€ che, sempre in termini di costo al  kilogrammo, significa una spesa tra i 20,00 ed i 24,00 euro: ben tre volte o più del costo di un kilogrammo di pollo o suino

Ma al di là del fenomeno di globalizzazione economica e sociale che sta investendo la diffusione di questo giustissimo costume alimentare, a destare preoccupazione per il futuro è il pensiero che una diffusione massiccia di questi costumi alimentari potrebbe aumentare il rischio della perdita delle tante tradizioni alimentari che si tramandano da millenni presso molti popoli e che da sempre vedono l’animale protagonista, non sempre in negativo. Se infatti è certamente vero che le condizioni in cui gli animali sono allevati e macellati sono tali da indurre a pelle un rifiuto più che giusto, è anche vero che questi fenomeni di degenerazione nella produzione di alcuni prodotti, sono tipici del secolo scorso mentre, fino a qualche secolo addietro, gli animali era allevati e cresciuti con non meno cure che gli uomini sulla base del rispetto di un valore, anche solo economico che essi avevano presso l’uomo, altissimo. Tradizioni, che raccontano di una vera e propria “societas” tra uomo ed animale, dove l’uomo scambiava l’accudire il primo con il poter prendere, col rispetto dei tempi e della vita del secondo, quanto di volta in volta gli serviva. Pensiamo alle pratiche di allevamento all’aria aperta, niente affatto deprecabili dal punto di vista etico, con animali alimentati da verdi pascoli che, almeno fino a quando l’uomo non glieli ha usurpati, hanno donato cibo sanissimo agli animali con tutte le conseguenze positive che le carni ed i derivati venivano ad avere in termini di salubrità. E quei metodi così rispettosi, hanno poi dato al pastore il latte che, è bene ricordarlo, è scarto per l’animale e che l’uomo ha saputo, con grande maestria, trasformare in alimento pregiato e vitale senza perciò togliere all’animale alcuna dignità. Oppure la semplice tradizione in uso da secoli presso i pescatori, e che ha poi finito con l’ispirare persino la legge, di non pescare oggi il pesce troppo piccolo che altrimenti domani non ci sarebbe abbondanza. Perché si può attingere dalla natura, ma distruggerla e depredarla senza limiti e senza rispetto, per l’uomo è antieconomico.

transumanza

Tutti esempi di grande coscienza dei bisogni dell’animale e rispetto per lo stesso che a ben vedere, rischiano di venire meno, non tanto con l’avanzare del veganesimo, quanto più con l’avanzare della globalizzazione e col dominio dell’economia della quale, le mode peraltro, altro non sono che la testimonianza più evidente. Esempi che, se da un lato ci ricordano che un modo diverso di rapportarsi con l’animale può esistere senza implicare necessariamente di cambiare le nostre abitudini o i nostri gusti, dall’altro rivelano le tante potenzialità della natura in quanto a possibilità di sfamare popoli. Perché non pensare infatti, come pensava gia un ventennio fa l’economista Jeremy Rifkin, che la diffusione massiccia di alimenti vegani possa dare un contributo essenziale alla lotta alla fame nelle parti del mondo più povere? A condizione, ovviamente, che l’economia, con la sua scure di cifre e profitti, non renda anche questi semplicissimi alimenti una rarità accessibile ai soli ceti più abbienti della popolazione globale.

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