Sono lontani da noi più di 8000 chilometri ma, quando si passa a considerare il loro sistema di istruzione, le distanze non solo fisiche rivelano differenze di rilievo. Parliamo degli Stati Uniti ed in particolare, quanto ad istruzione, del modello dei college americani, vere e proprie istituzioni, omologhe in un certo senso alle nostre Università, che agevolate anche dall’organizzazione federale dello Stato a stelle e strisce, sono divenuti florido porto di narrazione per storie di riscatto sociale. Attorno ai college ruotano infatti le tante storie di uomini e donne che da qui cominciano l’ascesa sociale, ed al contempo le storie delle città che vivono ed acquisiscono prestigio proprio grazie agli atenei, attorno ai quali si cementa anche il senso di appartenenza alla comunità dei cittadini.

Due dei più prestigiosi college americani: a sinistra il college di Harvard, a destra il MIT di Boston.
Tutto ciò, diventa particolarmente evidente quando si passa a considerare il profilo sportivo, fatto non solo di borse di studio concesse ai migliori talenti sportivi liceali, ma anche di campionati di livello nazionale che non hanno nulla da invidiare, pur non essendo campionati professionistici, ad altri campionati e che, grazie alla loro ampia eco, uniscono nel tifo delle varie squadre l’intera città. Molte però sono anche le storie di riscatto sociale che partendo da questo modello si possono raccontare e che hanno tutte il loro baricentro diviso a metà tra le oscure zone malfamate delle città e dei sobborghi americani da cui spesso si scappa e gli sfavillanti ambienti del college, dai quali i ragazzi spiccano il volo verso una vita migliore.
Tra questi, almeno nel mondo dello sport, brillano ad esempio i nomi di Allen Iverson, Chris Webber e soprattutto, di quel ragazzo ritenuto al liceo troppo gracile per giocare a basket, che diventerà, partendo da Brooklin e passando per il college di North Carolina, il più grande di sempre: Michael Jordan Particolarissima, poi, è la storia di CJ Mc Collum, miglior esordiente in NBA nel 2016, il quale all’ultimo anno di college, dove aveva scelto di studiare giornalismo, viene contattato da una squadra dell’NBA: rifiuterà quel contratto per studiare un altro anno, preferendo prima la laurea.

Il ragazzo che rifiutò la NBA per laurearsi in giornalismo: C.J. MC Collum, oggi star dei Portland Blazers
Il meccanismo, peraltro, comincia ad operare già un passo prima che i ragazzi arrivino al college, ovvero nelle high school (l’equivalente dei nostri licei ndr), dove i migliori talenti vengono costantemente monitorati dagli osservatori dei maggiori College al fine di individuare coloro ai quali saranno concesse le borse di studio. Lo scambio è semplice ed evidente: tu giochi per noi e ci aiuti a portare in alto il nome del nostro ateneo e noi ti diamo una borsa di studio e la possibilità di avere una laurea.
Ma non è tutto, infatti nei college americani non basta essere bravi atleti per potere giocare in una squadra e magari avere la possibilità di arrivare a livelli più alti. I ragazzi sono obbligati a seguire con profitto il corso di studi che hanno scelto, diversamente perdono la borsa di studio e perdono il diritto di giocare nei vari campionati.
Se facile è comprendere lo scambio che si innesca tra il college e lo studente, altrettanto semplice è capire quali possano essere gli effetti positivi di questo sistema in termini di ritorno culturale e sociale. In questo modo, infatti, i giocatori professionisti sono, nella quasi totalità dei casi, giocatori istruiti e forniti, ove la carriera sportiva non dovesse andare bene, di un titolo che consentirà loro di poter prendere altre strade.
Ma per quanto i lati positivi siano assieme evidenti e notevoli, questo non ha comunque impedito al modello appena illustrato di rivelare, a lungo andare, qualche ombra, soprattutto da quando anche attorno agli sport collegiali (basket e football in particolare) hanno cominciato a ruotare interessi economici ragguardevoli. Sono così venuti alla luce i primi scandali che hanno interessato i più vari college del Paese, dove ad esempio venivano truccati i voti per consentire ai giocatori migliori di non saltare le partite più importanti o dove si procedeva a ricerche mirate e reclutamenti non regolari di giocatori per assicurarsi i migliori. Purtroppo il college è anche questo: un costante intreccio tra il prestigio da mantenere o acquisire ed un utilitarismo spregiudicato, come in molte cose americane, e che rischia di compromettere anche i molti lati positivi di un sistema che ha raccontato e continuerà a raccontare ancora belle storie, non solo sportive.
Storie che prima di essere di sportivi sono di uomini che, pur partiti con in mano le peggiori carte che la vita gli poteva dare, sono riusciti con l’aiuto di un sistema che tendenzialmente permette ai migliori di emergere, ad invertire la rotta delle proprie vite, portandoci così al cospetto di importanti storie di riscatto sociale. E non c’è forse miglior modo per descrivere quel sentimento comune, vivo nella cultura americana, dove nonostante la partenza difficile si può arrivare a risultati strabilianti: declinando in modi più o meno diversi, ma sempre ugualmente incisivi, il concetto di american dream.
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Categorie:ATTUALITÀ