Già l’Aurora, levandosi a Titone | D’allato, abbandonava il croceo letto, | E ai dèi portava ed ai mortali il giorno; | E già tutti a concilio i dèi beati | Sedean con Giove altitonante in mezzo, | Cui di possanza cede ogni altro nume.
(Odisse, libro V)
Quando Ulisse intraprese il viaggio che lo avrebbe dovuto riportare a casa, al termine della guerra di Troia, di sicuro non avrebbe mai immaginato a quali peripezie sarebbe andato incontro.
A tutti, infatti, sono note le avventure che l’eroe greco, assente da Itaca da oltre 10 anni, ha dovuto affrontare, non solo per ritornare nella sua patria, ma anche per riprendere possesso del proprio regno, ormai, in balia della rapacità dei Proci.
Un viaggio( Nostos) lungo e non privo di pericoli divenuto, in seguito, vero e proprio emblema dell’approdo, simbolo di una partenza e di un ritorno più che fisici mentali.
Da questo punto di vista, il viaggio, viene inteso come metafora del vivere, come punto di convergenza di diverse correnti della vita e soprattutto come predisposizione mentale al conoscere e allo scoprire, assaporando di volta la bellezza dell’esperienza.
E, proprio in questo modo, potrebbero essere intese le mille prove che Ulisse deve superare affinché possa approdare in quel porto sicuro che, più che un luogo fisico, è un’enclave affettiva dove cardini sono: la moglie Penelope, pressata dalla corte affinché prenda in sposa uno dei porci e dia, dopo 10 anni, un nuovo re ad Itaca, ma anche il figlio Telemaco,il quale, pur avendo un ricordo sbiadito del genitore, partito per la guerra quando lui era solo un fanciullo, serba sempre intatta la speranza di ritrovare quel padre, ormai, assente da troppi anni.
Non è un caso, infatti, che il viaggio di Ulisse si compia per mare, elemento impervio e misterioso ma anche fonte di vita e di riflessione, così come non è assolutamente per mero gusto del fantastico che, i pericoli incontrati dall’eroe, lungo la sua traversata, siano soprattutto di natura fantastica.
La presenza del meraviglioso, infatti, sta a simboleggiare proprio il conoscere ciò che si riteneva inesistente ed estraneo, ed è proprio questa “ossessione” di Ulisse per la sperimentazione e per la conoscenza che porterà Dante Alighieri, nella Divina Commedia, a “punirlo”, inserendolo nel girone infernale dei consiglieri di frode.
In una sorta di excursus sulle vicende post-ritorno il poeta, infatti, racconta di come Ulisse e i suoi compagni, dopo un periodo relativamente breve di stabilità decisero di partire alla volta delle colonne d’Ercole( Stretto di Gibilterra) dove, secondo la mitologia, sarebbe terminato il mondo sino ad allora conosciuto.
Quando Dante, attraverso Virgilio( l’unico in grado di parlare la lingua d’Ulisse) chiede all’eroe il perché di questa impresa che sapeva essere altamente pericolosa e gli rammenta che, ad Itaca, possedeva già tutto ciò di cui aveva bisogno, Ulisse, in modo emblematico risponde:
« “O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. »
(Divina Commedia vv. 112-120)
rimarcando in questo modo quello che, secondo uno dei più affascinanti eroi classici , è l’unico scopo della vita: il conoscere per non abbrutirsi, per non restare bloccati a quello stato primitivo fatto di solo istinto ma privo di ratio.
Dal personaggio di Ulisse e dalle sue peripezie, trarrà spunto lo scrittore irlandese James Joyce il quale, nell’Ulisse, il romanzo più rivoluzionario del ‘900, farà compiere ai propri protagonisti un viaggio interiore molto simile a quello del viaggiatore greco e che affronterà il tema del naufragio della società e soprattutto della frantumazione dell’io tipica della società moderna.
Un viaggiare, quello di Ulisse, che nella storia è servito da ispirazione, inteso, quindi, non in senso geografico ma soprattutto spirituale e filosofico. Un peregrinare alla ricerca di ciò che la vita può riservare, di ciò che di nuovo l’esperienza e il mondo possono insegnare e che diviene vero e proprio emblema della conoscenza intesa nella più alta delle accezioni.
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Valentina Nesi
Categorie:CULTURA
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