Il tatuaggio, fin dall’antichità, è stato impiegato presso moltissime culture, esso poteva rappresentare sia una carta d’identità dell’individuo che lo portava, che un rito di passaggio come l’iniziazione all’età adulta; in altre culture il tatuaggio era uno strumento terapeutico, come testimonia il ritrovamento della mummia di Ötzi, il cui corpo presenta dei segni che corrispondono alle linee dell’agopuntura.
Per molti anni questa è stata una pratica proibita, per poi ripresentarsi come simbolo di delinquenza, teorie sostenute e portate avanti, dalla seconda metà dell’800, da Cesare Lombroso; tanto che a seguito della diffusione di queste teorie, il tatuaggio subisce una vera e propria censura e, contrariamente ad altri paesi occidentali, non nascono botteghe e studi professionali prima della fine degli anni ’70. Nel decennio precedente il tatuaggio ha conosciuto una progressiva diffusione, dapprima nelle sottoculture urbane, per poi conquistare ogni strato sociale e fascia d’età.
Nella cultura odierna il tatuaggio è ormai sdoganato, e se per alcuni è semplicemente un accessorio di bellezza, per altri diventa un vero e proprio canale di comunicazione. È il caso di Philip Airosa, il giovane svedese che ha messo in vendita, ad aziende e brand di ogni tipo, la propria pelle alla cifra di 1000 dollari per centimetro quadrato. Molti di questi siti sono ormai chiusi, ma gli avventori dello skinvertising continuano a portare in bella vista marchi ormai obsoleti. Pentiti? Forse un po’.
Ma se questa pratica, ad alcuni, può risultare estrema, giunge dall’Inghilterra il nuovo trend in fatto di tatuaggi: la “tooth art”. La moda che decora il sorriso permette di inserire una capsula dentaria con il disegno che si preferisce, non si ricorre agli strumenti del tatuaggio tradizionale, ma ci si sottopone ad una vera e propria operazione odontoiatrica. L’operazione non è propriamente economica, ma pare essere un trend in espansione.
Tornando a parlare delle pratiche più tradizionali inerenti quest’arte, incontreremo oggi chi dei tatuaggi ha scelto di farne un mestiere: Mariangela Matera, professione tatuatrice.
Originaria di Andria, salentina di adozione. Si trasferisce a Lecce per intraprendere gli studi all’Accademia di Belle Arti, in cui si specializza, con il massimo dei voti, in scenografia nel febbraio 2016. Affascinata dal mondo dei tatuaggi fin dall’adolescenza, in concomitanza con il percorso di studi, inizia a muovere i suoi primi passi dall’altro lato della macchinetta, fino a coronare il suo sogno di conseguire l’attestato da tatuatore professionista.
Giovane, umile e genuina, apprestiamoci a scoprire una parte del mondo della body art attraverso le sue parole.
Ci illustri meglio in cosa consiste il mestiere del tatuatore e come nasce la sua passione:
La mia passione nasce dalle scuole superiori, quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo “la tatuatrice”, ma avevo paura ad approcciarmi a questo mondo forse perché i miei canoni erano troppo alti, non mi sentivo all’altezza di quei mostri sacri che tatuano da più di venti anni e realizzano vere e proprie opere d’arte. Poi, essendo onesti, all’epoca quest’arte non era così sdoganata, chi aveva un tatuaggio era etichettato come un “poco di buono”. Ad ogni modo, continuo a coltivare la mia passione per l’arte, in generale, nasce poi il mio interesse per l’architettura, e infine mi iscrivo all’università. Mi indirizzo, quindi, verso un percorso che avrebbe potuto portarmi ad un lavoro “concreto”, ma mi sentivo incompleta, mancava un tassello nella mia vita.
Due anni fa mi è stata data la possibilità di approcciarmi a questo mondo, mi è stata regalata una prima macchinetta per fare tatuaggi, da quel momento ho rimesso in ballo la mia vita professionale. Ho iniziato a studiare tecniche, materiali, simbologia, qualsiasi cosa che appartenesse al mondo dei tatuaggi. Grazie al sostegno e alla fiducia che la mia famiglia ha riposto in me, ho iniziato a sperimentare le prime tecniche apprese tatuando proprio i miei parenti, gli amici più stretti e me stessa. Per perseguire questa strada, inizialmente, ho dovuto mantenere due lavori contemporaneamente. Quando la tua passione diventa anche il tuo lavoro, è totalizzante.
Dopo un anno e mezzo di gavetta, mi è stata data la possibilità di iniziare a lavorare in uno studio. Prima di allora mi hanno chiuso tante porte in faccia, ma ho avuto la fortuna di incontrare anche dei colleghi disponibili che mi hanno indirizzata in questo lavoro.
In questo particolare settore “dominato” per lo più da uomini, almeno fino a qualche decennio fa, come ha trovato e vissuto l’inserimento nel mondo del lavoro? Ha riscontrato delle difficoltà o è solo una percezione esterna che questo sia un mestiere accessibile principalmente agli uomini?
Per quanto mi riguarda non ho avuto grandi difficoltà in quanto donna, ma effettivamente di donne che lavorano in studio, almeno al Sud Italia ce ne sono veramente poche. Ora la figura di una tatuatrice in studio è percepita in modo diverso, come una figura rassicurante, il cliente si sente molto più a suo agio, l’approccio è più amichevole e confidenziale, ma dipende anche molto dalla personalità di ognuno e dalla connessione che si crea con il cliente. Però tornando indietro nel tempo, la figura femminile in quest’ambito non è sempre stata ben vista perché è l’ambiente che è visto come “trasgressivo” e popolato principalmente da uomini. Ad esempio tuttora c’è mia nonna che ogni tanto mi chiede quando mi trovo un lavoro serio. Penso che sia più un problema sociale per come è ancora vista la figura della donna nell’immaginario collettivo di molti, dedita alla casa e alla famiglia, quindi può sembrare strano a chi ha ancora questo tipo di mentalità che una donna possa scegliere di perseguire questa strada.
In diversi ambiti lavorativi c’è molta competizione fra colleghi, quando questa può definirsi sana diventa un interessante spunto di crescita personale e professionale, oltre a poter portare a delle collaborazioni proficue e stimolanti. Quando, invece, la si usa con lo scopo di “superare” e mettere in cattiva luce i colleghi, diventa distruttiva. Nel suo mondo c’è più competizione o collaborazione?
Purtroppo c’è più competizione che collaborazione, è molto triste questa cosa. Non ci rendiamo contro di quanto la competizione stia distruggendo l’arte. Ci sono clienti che giocano a ribasso con i prezzi, di conseguenza anche molti tatuatori, quindi non si sceglie più un tatuatore perché è veramente bravo o perché si vuole assolutamente il suo pezzo poiché è una cosa unica. L’altro problema è che si punta alla quantità e non alla qualità, non tutti possono fare tutti gli stili, ma c’è chi si improvvisa. Per molti la collaborazione è un tabù, fingono di collaborare ma se possono ti pugnalano alle spalle. Fortunatamente ho incontrato dei ragazzi, come me, e passiamo ore a parlare, discutere e confrontarci sulle tecniche che conosciamo, ad esempio da questo tipo di collaborazioni si cresce personalmente e professionalmente. Chi si approccia ora a questo lavoro non ha paura di confrontarsi e svelare le tecniche del tatuaggio, alcuni dei tatuatori della vecchia scuola non sono molto propensi al confronto. È sicuramente un’arte non accessibile a tutti, ma è banale nascondere ciò che si sa se si ha più esperienza.
Pensa che scegliere di fare questo lavoro sia una vocazione o una necessità dettata dalle attuali dinamiche del mercato, quindi dalla crescente domanda di tatuaggi? Essendo più espliciti: quanti, a suo avviso, scelgono questo lavoro per vocazione?
Pochi, veramente pochi. Ora tatuare è diventato semplice, basta ordinare un kit da internet e si può tatuare. È diventato più accessibile acquistare gli strumenti da lavoro e si guarda solo al profitto economico, tralasciando spesso il lato artistico di questo mestiere.
Per me questa è una passione, ma non mi sento tatuatrice, non mi sento tale perché per me è una cosa così grande che devono passare ancora anni ed esperienza per potermi definire tale. In questo lavoro mi sento sempre incompleta perché credo che ci sia sempre di più da raggiungere e da imparare, tutti i giorni mi confronto con mostri sacri e definirmi tatuatrice come loro mi imbarazza perché penso di dover imparare ancora molto. Quando penso di aver sbagliato qualcosa, o che avrei potuto fare di meglio, non dormo la notte perché so di aver compromesso per sempre una persona, in questo mestiere non si può improvvisare. Ho buttato due lauree e ho rinunciato al posto fisso, alla possibilità di inserirmi in graduatoria per l’insegnamento, ma sono felice di quello che faccio, mi sveglio contenta la mattina perché so di fare ciò che mi piace. È una strada difficile perché è piena di rinunce. Molti tatuano solo per soldi perché è un guadagno facile, vista la diffusione della moda del tatuaggio oggi, ma servono basi tecniche e passione per fare questo lavoro. Così come è una moda tatuarsi, è diventata una moda anche tatuare, ma il tatuatore non è il personaggio che si costruisce. Il tatuatore è colui che sente quello che fa, non quello che applica quelle tecniche apprese durante un corso.
Quello del tatuatore è un mestiere con molte responsabilità, si inscrive sulla pelle in modo indelebile un disegno(che ha un significato ben preciso per chi lo porterà per il resto della vita), qual è l’etica che c’è dietro questo lavoro?
Io a livello etico non tatuo il collo o le mani a gente molto giovane o che non ha mai fatto un tatuaggio prima di allora. Ora c’è la moda del tatuaggio sulla mano e molti diciottenni chiedono quel tipo di tatuaggio, ma non sono consapevoli di quello che stanno facendo, non sanno cosa vorranno fare da grandi e purtroppo in alcuni ambienti lavorativi tatuaggi così evidenti non sono ben visti. Per una questione di onestà ci sono delle zone del corpo, a meno che il cliente non sia realmente consapevole di quello che sta facendo, che preferisco non tatuare. Ho perso tanti clienti per questo motivo, ma sto bene con me stessa e preferisco pensare che un giorno queste persone mi ringrazieranno. Dovrebbe esserci un’etica più ferrea. Nel nostro lavoro ci sono delle cose molto delicate che la gente viene a tatuarsi, come il nome o il ricordo di una persona cara che è venuta a mancare, in quel momento quella persona si sta affidando completamente a te perché affida i suoi ricordi, i suoi sentimenti e anche l’accettazione di ciò che è avvenuto. Bisogna essere certi di quello che si sta facendo, ecco perché è un mestiere in cui non si può improvvisare e in alcuni casi bisogna avere l’onestà di dire questo pezzo potrebbe farlo meglio un mio collega.
D: Personalmente, cosa consiglierebbe a chi viene a chiederle di tatuarsi senza avere la consapevolezza di ciò che sta facendo o, peggio, solo per moda? Ad esempio, ora impazza la moda del tatuaggio old school, in quanti sono realmente consapevoli dei simboli che portano addosso?
Personalmente dico di non tatuarsi se non si è consapevoli di ciò che si sta facendo.
La simbologia viene meno nella maggior parte dei casi, prima alcuni simboli avevano dei significati forti ora la maggior parte della gente non sa cosa porta addosso e in parte si è perso quel significato originario. Però deve esserci il rispetto per la simbologia, si deve sapere che magari quel determinato simbolo in alcune culture e ambienti ha un significato forte. La cosa che consiglio sempre a chi non è convinto di tatuarsi è di pensarci bene prima, di prendersi del tempo, di non avere fretta e di tornare quando è realmente convinto.
Per quanto riguarda l’old school anche quei simboli sono diventati un accessorio, come un paio di scarpe o una borsa.
Continuando a parlare di simbolismo, nelle prigioni sovietiche è molto radicata e diffusa la pratica del tatuaggio, tanto che non solo rappresentano il crimine che il detenuto ha commesso, ma diventano una vera e propria forma di comunicazione tra prigionieri. Arkady Bronnikov, considerato il massimo esperto russo in fatto di iconografia dei tatuaggi, ha pubblicato una raccolta di circa 180 fotografie di criminali rinchiusi nei penitenziari sovietici: Russian Criminal Tattoo Police Files, pubblicato da FUEL. Molte informazioni sui criminali sono tratte dall’interpretazione dei tatuaggi che portavano. Può farci degli esempi di simboli che appartengono a questo linguaggio in codice nelle prigioni sovietiche, ma che magari inconsapevolmente sono tuttora in voga?
Questo è un argomento molto delicato, perché in quell’ambiente ogni immagine è carica di significato, racconta la storia di chi lo porta e se quella storia non corrisponde alla realtà può diventare anche causa di morte.
Ci sono molti simboli ricorrenti, ad esempio la croce sul petto è un simbolo molto rispettato in carcere soprattutto da chi ha commesso un furto, non è considerato un simbolo religioso, ma significa “principe dei ladri”.
La farfalla, che ora rappresenta la libertà ed è più che altro un simbolo di bellezza e femminilità, in carcere veniva associata all’abuso di droghe.
Ogni paio di manette, invece, significano cinque anni di prigionia. Monasteri, angeli, santi, cattedrali sulla schiena o sul torace, simboleggiano devozione dopo aver commesso un crimine.
Il dollaro, i grattacieli e le mitragliatrici, con le iniziali US, indicano uno stile di vita mafioso, e probabilmente il fascino per quello americano.
Nel corso degli anni, dalle sue origini ad oggi, quanto la simbologia dei tatuaggi si è allontanata da quei significati iniziali? Se c’è stato un discostamento, più o meno considerevole, secondo Lei perché?
Prima c’era l’esigenza di trasmettere dei messaggi, in alcuni ambienti, come quello delle prigioni,
erano fondamentali perché tramite quei simboli si facevano dei veri e propri discorsi senza parole, si sapeva addirittura chi si aveva di fronte e che tipo di reato aveva commesso. Adesso ha meno significato, se non per chi lo porta che gli attribuisce un significato particolare, magari legato ad un episodio specifico, ad un periodo della propria vita, ad una persona.
Molti personaggi, famosi e non, hanno un’ancora tatuata. Ad esempio Winston Churchill ne aveva una sull’avambraccio (forse realizzata durante i suoi anni trascorsi in giro per il mondo come corrispondente tra Cuba, India e Sudafrica), proprio come Popeye (aka Braccio di ferro). Sappiamo che è un simbolo appartenente alla cultura marinaresca, ma qual è il suo reale significato?
Sì, è un simbolo legato alla cultura marinaresca, infatti dal punto di vista storico indica un profondo rapporto con il mare. Ed è il motivo per cui spopolava tra i marinai o tra chi era costretto ad affrontare lunghi viaggi in mare. Il significato moderno dell’ancora è legato a particolari valori dell’essere umano come la sicurezza, la fedeltà, la stabilità.
Sempre legata alla cultura marinaresca c’è la leggenda secondo cui un numero dispari di tatuaggi porti fortuna. La storia narra che il marinaio che partiva si tatuava per la prima volta nel porto di partenza, una seconda volta durante il viaggio o nel porto di destinazione, e una terza quando finalmente faceva ritorno a casa. Questa pratica si ripeteva ad ogni viaggio. Quindi il marinaio che aveva un numero pari di tatuaggi rappresentava chi non era riuscito a far ritorno al porto di partenza, quindi c’era dietro la sofferenza e la nostalgia di casa. Ecco il motivo per cui, tutt’oggi, si pensa che avere un numero pari di tatuaggi porti sfortuna.
A livello professionale, quanto pensa che sia positiva o negativa questa moda del tatuaggio? E quanto sia longevo il lavoro del tatuatore?
Essendo obiettivi, è positiva dal lato economico. Non è positiva per il significato e l’origine di questo mondo, rispetto a quanto spesso viene profanata quest’arte. Prima o poi si arriverà ad una cernita, sicuramente è una moda che continuerà ancora per molto tempo ma non per tutti. Penso che ci sarà una selezione sia a livello di tendenza che a livello lavorativo. Magari inizierà ad andare di moda non avere tatuaggi.
Tiziana Giannitelli
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