Siamo sempre abituati a sentirci raccontare l’arte con le solite formule tecniche. E se per una volta ci sedessimo ad osservare un quadro a ad ascoltare la sua storia come se fosse una fiaba?
La storia dell’arte ci insegna che tra i soggetti più rappresentati in epoca cristiana vi sono quelli tratti dai racconti biblici.
La storia che sto per narrarvi è quella di Giuditta e Oloferne tratta da il Libro di Giuditta, testo contenuto nella Bibbia cristiana, composto da 16 capitoli descriventi la storia dell’ebrea Giuditta, ambientata al tempo di Nabucodonosor .
A quei tempi (intorno al 600 a.C. ca) il re babilonese Nabucodonosor , conclusasi vittoriosamente la campagna militare contro i Medi, aveva affidato il comando di una nuova campagna militare contro l’Occidente al generale Oloferne. Quest’ultimo finì per imbattersi nel popolo di Israele. Ed è proprio qui che entra in scena Giuditta, vedova ricca, bella, ma soprattutto virtuosa e timorata di Dio e per questo profondamente amata dal popolo ebraico.
« Giuditta era rimasta nella sua casa in stato di vedovanza ed erano passati già tre anni e quattro mesi. Si era fatta preparare una tenda sul terrazzo della sua casa, si era cinta i fianchi di sacco e portava le vesti delle vedove. Da quando era vedova digiunava tutti i giorni, eccetto le vigilie dei sabati e i sabati, le vigilie dei noviluni e i noviluni, le feste e i giorni di gioia per Israele. Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manàsse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché temeva molto Dio. » (Giuditta 8, 4-8)
Dinanzi l’ignavia del suo popolo già pronto alla resa in favore del nemico, questa donna simbolo della potenza del Signore, di vittoria del debole contro il forte, con l’aiuto di una serva mette in atto il suo piano che salverà l’intero popolo di Israele dall’assedio del generale Oloferne. Durante la notte la donna si introduce all’interno della tenda di Oloferne intenta a sedurlo per poi ucciderlo.
Il culmine di questa storia è stata maestosamente immortalata nella grande opera del Caravaggio per l’appunto intitolata ‘’Giuditta e Oloferne’’, realizzata nel 1599 e oggi conservata nella Galleria di arte antica a Roma.
Quando commissionai il quadro, il giovane Michelangelo Merisi aveva solamente 27 anni. Chi sono io? Il mio nome è Ottavio Costa e sono un noto banchiere vissuto tra la fine del’ 500 e inizio ‘ 600. Sono un personaggio ben noto agli storici dell’arte soprattutto per l’importanza che ebbi nell’ambito complesso della cultura romana tra Cinquecento-Seicento, con particolare accento al mio ruolo di committente e di protettore del Caravaggio. Per coloro che volessero scoprire molto più su di me consiglierei un libro a opera di Josepha Costa Restagno ( consentitemi la pubblicità ai parenti) dal titolo
‘’ Ottavio Costa (1554-1639). Le sue case e i suoi quadri. ”
Osservate il quadro:
I tre personaggi sono messi in risalto dallo sfondo nero: la scena si svolge al buio della tenda del generale Oloferne. Il pittore non si discosta molto dal racconto biblico e, infatti, fa in modo che Giuditta uccida l’avversario con una spada del Medio Oriente; al contrario, però, rappresenta le due donne con dei vestiti più recenti, tipici delle donne del periodo di Caravaggio.
A prestare il volto a Giuditta fu Filide Melandroni, una cortigiana del tempo, amica dell’artista. Questa viene ritratta con una smorfia di disgusto e con il corpo ritratto indietro da quello della sua vittima appena sgozzata. Oloferne sulla sinistra è rappresentato in una smorfia che non lascia ben capire se sia già morto oppure sia prossimo al suo ultimo respiro: lo sguardo vitreo lascerebbe pensare al generale già morto mentre la contrazione muscolare indurrebbe a pensare il contrario. Il volto della donna misto tra fatica e orrore è messo in risalto dall’espressione cinica e fredda della serva che le sta accanto. Non a caso l’artista ha inserito una serva molto vecchia e brutta che fa da contraltare alla bellezza e alla giovinezza della vedova. In questo modo l’autore sottolinea le differenze tra le due figure e fa risaltare maggiormente la prima, che incarna grandi valori morali. La poca forza impressa da Giuditta per decapitare Oloferne è irreale, ma nello stesso tempo è di forte valore simbolico: la donna rappresenta lo strumento di salvezza che Dio dà agli Ebrei
Si suppone che il volto ritratto del generale morente sia proprio quello dell’artista che simbolicamente ha voluto ritrarre l’orrore e l’urlo di spavento di Oloferne come una rappresentazione della paura della castrazione, che la decapitazione (spesso presente nell’opera del Caravaggio), evoca in modo drammatico. Si narra anche che Caravaggio abbia dipinto il quadro pensando alla storia di Beatrice Cenci, una giovane nobildonna romana giustiziata per parricidio e poi innalzata al ruolo di eroina popolare.
Molteplici sono le opere dedicate a questo racconto biblico.
Ricordiamo la ‘’Giuditta e Oloferne’’ di Artemisia Gentileschi, una pittrice italiana di scuola caravaggesca vissuta nella prima metà del XVII secolo, la cui interpretazione dell’uccisione di Oloferne da parte di Giuditta contiene sicuramente il riferimento all’opera di Caravaggio.
Bisogna tendere non ai discorsi sulla virtù, bensì alle opere e alle azioni virtuose.
(Democrito)
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