Ad uno sguardo rapido sul panorama delle aule di giustizia e di chi le popola e le anima, ciò che più immediatamente salta all’occhio è il cospicuo e crescente numero di Avvocati in gonnella.
Un dato che oggi, nell’era dell’emancipazione e dell’affermazione di una sempre più prepotente cultura di genere, non sembra affatto straordinario, ma che probabilmente, in un contesto temporale in cui la donna manager o professionista è ormai la norma, ha gettato nell’oblio le pantagrueliche fatiche, le lotte di classe e le accese contestazioni che hanno portato avanti, con convinzione, quelle Donne per cui non era così semplice risultare “credibili” in un mondo che volgeva al maschile.
In Italia le donne sono state ammesse all’esercizio della professione forense solo nel 1919, ed alla magistratura solo nel 1963, sul presupposto di un’incapacità genetica che era il discrimine rispetto al sesso maschile, i cui membri erano dotati di un’intelligenza e di capacità cognitive e culturali superiori rispetto a quelle delle “femmine”.
Una sorta di “secondo sesso” quello delle donne, che non riusciva, per limiti biologici e connaturati alla minor benevolenza della natura nei confronti di chi nasceva femmina, ad andare al passo con il superiore genere maschile.
Gli esordi della professione forense per le donne non sono stati affatto semplici, ed anzi segnati da una profonda sofferenza e da un disagio umano intriso di particolare violenza emotiva e di pensiero.
Quella che vi voglio raccontare è la storia di una grande Donna, della sua tenacia, della perseveranza con cui ha perseguito l’obiettivo di esercitare la professione forense attivamente e senza vincoli, al pari di un maschio.
Quella che vi voglio raccontare è la storia di Lidia Poet, una giovane donna piemontese con il pallino e l’ambizione dell’avvocatura, che dopo essersi laureata alla facoltà di legge dell’Università di Torino il 17 giugno 1881, e dopo aver superato gli esami per diventare procuratore legale, ebbe l’ardire di chiedere la propria ammissione in qualità di iscritta all’Ordine degli Avvocati di Torino.
Una richiesta oggi normale, dall’esito scontato, e che però all’epoca fece gridare allo scandalo.
Tra le polemiche sollevate e lo sconcerto degli avvocati del Foro torinese per cotanta impertinenza, non essendovi un divieto di legge specifico per le donne di entrare nell’Ordine, la Poet fu ammessa a maggioranza e divenne la prima donna iscritta all’Ordine degli Avvocati di Torino (ed all’ordine forense in generale almeno in Italia) con provvedimento di ammissione del 9 agosto 1893.
Ma la cosa non passò inosservata ed anzi scatenò le ire del Procuratore Generale che portò il caso dinanzi alla Corte di Appello di Torino, sostenendo a gran voce l’illegittimità dell’iscrizione ed il divieto di legge per le donne di esercitare il pubblico ufficio. L’assenza di uno specifico divieto per le donne di esercitare l’avvocatura non implicava affatto che esse ne avessero titolo o diritto; il fatto che l’avvocatura fosse prerogativa prettamente maschile era del tutto ovvio, al punto da non rendere necessaria l’emanazione di alcuna legge che vietasse l’esercizio del medesimo ufficio alle donne. D’altronde era così sin dai tempi dei Romani!
Fu così che l’11 novembre del 1893 la Corte di Appello di Torino, chiamata a pronunciarsi sul caso, annullò l’iscrizione all’Albo della Poet adducendo a motivazione del deliberato come fosse evidente nel concetto del legislatore “che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine” perché disdicevole era per le donne la frequentazione della “palestra forense”. Non fu di diverso avviso la Cassazione, alla quale Lidia Poet ricorse per poter sovvertire il pronunciamento svilente e discriminatorio assunto nei suoi confronti dalla Corte distrettuale.
La questione sollevò un acceso dibattito che vide l’opinione pubblica quasi tutta dalla parte della bistrattata, ma inutilmente.
Rammaricata ed al contempo rassegnata per il veto ricevuto, la Poet decise di coadiuvare il fratello avvocato pur non esercitando la professione e divenne particolarmente attiva nella tutela dei diritti dei minori, delle donne e degli emarginati.
Solo nel 1920, l’anno successivo all’entrata in vigore della legge Sacchi, che eliminò finalmente l’istituto giuridico dell’autorizzazione maritale, Lidia Poet, giunta all’età di sessantacinque anni, poté richiedere ed ottenere di essere iscritta a tutti gli effetti all’Albo degli Avvocati e di esercitare la professione forense.
Quando entro nelle aule giudiziarie e vedo tutte quelle donne che, quotidianamente, svolgono la loro professione nella “palestra forense” ritenuta poco più di cento anni fa luogo nient’affatto confacente ai costumi ed alle fattezze femminili, non posso non pensare alla Poet, alla pioniera delle Avvocate, a colei che per prima ha sfidato il sistema ed ha lanciato la sua provocazione.
Quando penso alle donne che svolgono la professione forense, spesso e volentieri anche meglio dei loro colleghi uomini, quando rifletto sulla ordinarietà di tale circostanza e sulla semplicità per una donna di ottenere oggi l’iscrizione all’albo degli avvocati, non posso non pensare che questa ordinarietà è il frutto di un percorso difficile e sofferto, tracciato da Donne che hanno lottato per l’affermazione dei loro diritti e di una cultura di genere che ha determinato questa lenta e difficile evoluzione.
Ciò che oggi appare scontato è in realtà un grande privilegio ed essere “Femmina” finalmente non rappresenta un disvalore, ma il valore aggiunto di questo valoroso “secondo sesso”.
“Essere donna non è un dato naturale, ma il risultato di una storia. Non c’è un destino biologico e psicologico che definisce la donna in quanto tale. Tale destino è la conseguenza della storia della civiltà, e per ogni donna la storia della sua vita”. (Simone de Beauvoir).
E’ questo il vero senso dell’evoluzione.
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