In un tardo pomeriggio di primavera, durante la rappresentazione teatrale di una straordinaria rivisitazione dell’Edipo Re, ho incontrato Matteo Tarasco. Un umile e taciturno regista che mi ha dato subito l’idea di essere un grande osservatore. In mezzo agli spettatori curiosi e nel mezzo di un chiacchiericcio interrogativo sullo spettacolo che a minuti sarebbe andato in scena, Matteo era lì a scrutare il suo pubblico.
Ma chi è Matteo Tarasco?
Ebbene, il suo curriculum farebbe gola ai più.
Primo e unico regista italiano nominato Membro del LINCOLN CENTER THEATRE DIRECTORS LAB (New York City), dove ha lavorato nel 2006 e 2007,
Nel dicembre 2006, il Presidente della Repubblica Italiana gli conferisce il Premio PERSONALITA’ EUROPEA PER IL TEATRO 2005 come migliore regista emergente.
Dal 2007 al 2009 è Regista Ospite presso LAMDA – LONDON ACADEMY OF MUSIC AND DRAMATIC ART, per la quale dirige e adatta in lingua inglese Opinions of a Clown, ispirato al romanzo di Heinrich Boll e The Late Mattia Pascal, adattamento dell’omonimo romanzo di Luigi Pirandello.
Dal 1999 al 2004 è stato Professore presso UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA – FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA – CORSO DI LAUREA D.A.M.S. – CATTEDRA DI STORIA DEL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO (Cultore della Materia), per la quale ha condotto studi sul teatro di Anton Pavlovic Cechov sfociati nella pubblicazione del saggio Una speciale provvidenza, (Ed. Trame Perdute, 2004, Bologna).
Dal 1996 al 2002 è stato assistente alla regia di Gabriele Lavia.
Ovviamente la lista dei suoi successi è ancora molto lunga ma andiamo a scoprire insieme l’attore, il regista e perché no, anche l’uomo.
Totus mundus agit histrionem – Tutto il mondo è un palcoscenico.
Come ha avuto inizio la sua vita su di esso?
Più di vent’anni fa. Mi stavo laureando all’Università di Bologna, avevo deciso di fare il regista. Ma non sapevo esattamente come fare. Pensai di scrivere una raccomandata con ricevuta di ritorno (al tempo non esistevano le e-mail) ad ogni compagnia e ad ogni teatro italiano, proponendomi come assistente alla regia volontario. Ne scrissi settanta. E attesi pazientemente che qualcuno mi rispondesse. Le ricevute di ritorno mi piovevano nella cassetta della posta. Sapevo che le mie le lettere erano arrivate, ma nessuno mi chiamava. Avevo quasi perso la speranza, quando un giorno squillò il telefono. Era Mariano Anagni, il manager della compagnia di Gabriele Lavia. Iniziai così la mia avventura nel teatro, come assistente volontario, poi come aiuto regista di Lavia per alcuni anni. Lo affiancai alla direzione artistica del Teatro Stabile di Torino, dove ebbi l’opportunità di fare la mia prima regia, la messa in scena integrale in dieci spettacoli delle Affinità Elettive di Goethe al Teatro Carignano. Era il 1999 e da allora il palcoscenico è diventato il mio mondo.
Moltissime delle sue rappresentazioni teatrali sono rivisitazioni della tragedia greca. Da cosa nasce questa sua grande passione?
La tragedia si nutre di miti. Io ritengo i miti universali e immortali. Forme ove riconoscere l’essenza dell’umano. La tragedia greca può dare forma e a volte sostanza alle nostre esistenze. La tragedia greca esplora i nostri desideri, le nostre paure e ci nutre di storie che ci ricordano che cosa vuol dire essere umani.
Gennaro Perrotta, grecista, filologo e traduttore italiano, ha affermato che “la tragedia comincia soltanto con Eschilo poiché per essa non esiste una tragedia prima della tragedia’’. Se essa ha inizio con Eschilo, per lei con chi finisce invece?
La tragedia in quanto forma non finisce mai. Ancora oggi le strutture profonde che incardinano le scritture contemporanee sono debitrici delle antiche tragedie che proiettano la loro luce di contemporaneità dall’abisso del tempo. Per vedere foglie rigogliose sulle cime dei rami, le radici debbono essere solide e sane. Se noi uomini e donne contemporanei vogliamo crescere ed evolvere dobbiamo prenderci cura delle nostre radici. Eschilo, Euripide e Sofocle sono le radici del grande albero della civiltà europea.
I grammatici alessandrini intesero il termine τραγῳδία ( tragedia) come «canto per il sacrificio del capro», ritenendo l’animale premio di una gara, come attestato anche dall’Ars poetica di Orazio. Attualmente, invece, per che cosa si gareggia?
Abbiamo perduto la sacralità dell’evento teatrale. Sarebbe bello avere in premio un capro, ma oggi vedo attorno a me persone che gareggiano per la sussistenza, la sopravvivenza, la fame, a volte per la vanità, l’orgoglio, la fama. Io ho sempre pensato il teatro come il luogo dove la verità si fa spettacolo. Ma è sempre più complesso in quest’epoca di crisi culturale, prima ancora che economica, crisi di valori prima ancora che di valute, riuscire a scorgere una strada poetica che ci riconduca all’essenza sacra del capro. Il teatro per gli antichi era un omaggio agli Dei, oggi spesso omaggiamo il nostro ego, in un costante processo autoreferenziale. Personalmente cerco di evitare di cadere nello specchio di Narciso, cerco invece di reggere lo specchio al fine che altri possano riconoscersi senza precipitare. Ecco forse è questo il premio che il teatro offre a tutti noi spettatori del ventunesimo secolo: la possibilità di riconoscere chi siamo o chi potremmo essere.
Cosa significa fare teatro oggi?
Il percorso dalle quinte alla scena non è un passaggio dalla penombra alla luce, ma un passaggio dalla luce alla notte.
Quando entrano in scena, gli attori entrano nella notte dell’anima, gli attori avanzano come ciechi, guardando con le dita spalancate, osservando con tutta la pelle. I teatranti cercano ad ogni passo di trovare il proprio percorso nel buio con l’insicurezza dei grandi dispersi. Fare teatro oggi è camminare nel buio, ciechi, alla ricerca di una luce. Fare teatro oggi è ridare carne alla parola, spesso stritolata nelle spire del senso logico. Il teatro di oggi dovrebbe ridare carne alle idee, incarnare pensieri e sentimenti.
Può svelarci qual è stata l’ opera portata in scena alla quale si sente più legato?
Alice nel manicomio di Wonderland, mio adattamento dai testi di Carroll. Uno spettacolo immaginato in una logora stanza di manicomio che lo spettatore vedeva dall’alto, in prospettiva zenitale. La scenografia da me disegnata imponeva agli attori equilibrismi e acrobazie ginniche costanti. Nasceva dall’esigenza, come dice Alice, di continuare a credere alle cose impossibili. Che è quello che cerco di fare tutti i giorni. Quando non ci riuscirò più, smetterò di fare teatro per non diventare uno dei tanti di troppo.
Da ‘’ L’Iliade – Le lacrime di Achille’’, Baccanti, Medee, Edipo Re.
Qual è secondo lei la più tragica delle tragedie?
La tragedia perfetta è per me Edipo Re. Se potessi, metterei in scena solo e sempre Edipo Re. E saprei di non saperne mai abbastanza. Edipo Re è un abisso, un luogo imperscrutabile sul quale è pericoloso affacciarsi.
Ha più volte portato in scena le sue rappresentazioni teatrali sul territorio lucano come Baccanti nel 2016 o Medee, spettacolo che verrà rappresentato per la prima volta ad agosto in collaborazione con il Circus (Centro di Iniziativa e Ricerca per la Cultura e lo Spettacolo) guidato da Daniele Onorati nella cornice offerta dai calanchi pisticcesi. Trova che questa terra abbia un palcoscenico naturale straordinario?
Il teatro può accadere ovunque fuori dagli spazi perché il teatro è proprio il luogo dove non c’è bisogno di aver luogo per essere. E pertanto vi sono luoghi in cui ci sentiamo essere, capiamo l’essenza dell’umano.
Vidi i calanchi per la prima volta in una notte di luna piena, con l’amico Daniele Onorati, un grande teatrante, un uomo ricco di sensibilità e coraggio imprenditoriale. Eravamo soli nel silenzio assoluto, nel buio assoluto, la terra illuminata d’argento dai raggi della luna. Gli animali ci spiavano muti da lontano. Non si sentiva rumore di civiltà, non si vedevano luci artificiali. In quel momento, in quel luogo magico, il calanco, credo di aver capito qualcosa di me come essere umano, qualcosa del mondo. Non so esattamente cosa, ma so che qualcosa di misterioso e magico è avvenuto in me. Teatro dei Calanchi è pertanto innanzitutto un atto di riconoscenza nei confronti di una terra ricca come la Basilicata, dove i valori profondi resistono intatti e dove sembra possibile una rinascita culturale, dove potrebbe crearsi un nuovo modello sociale, per il rilancio del nostro paese. Se negli anni ottanta il Veneto è stato la locomotiva economica del Paese, la Basilicata, nei prossimi anni, potrebbe diventare la locomotiva culturale. Il viaggio è appena iniziato e serve molta energia. Teatro dei Calanchi vuole essere uno stimolo al viaggio nel futuro di una nazione migliore.
Lei si sente più regista o attore?
Mi sento un artigiano del palcoscenico e cerco di dare forma ai miei sogni e con i miei sogni cerco di invitare gli spettatori a sognare i loro sogni.
Da bambino era questo il lavoro dei suoi sogni?
No. Da bambino giocavano a tennis. Avrei voluto vincere Wimbledon. Il teatro nella mia vita è stato un nobile ripiego. A quindici anni progettavo concretamente, con studio assiduo e quotidiano, studio che mi faceva trascurare la scuola, progettavo di diventare psicanalista. A vent’anni sognavo di fare il romanziere. Pochi anni dopo, ho preso al volo il treno del teatro che mi passava accanto e non sono più sceso; il treno continua ad andare, forse senza una meta precisa, ma attraversa paesaggi bellissimi, ogni tanto si ferma, sale qualche compagno di viaggio che m’insegna qualcosa sul mondo e suoi strani abitanti. Forse un giorno scenderò, deciderò di interrompere il viaggio per fermarmi da qualche parte e ricomincerò a studiare e a sognare. O magari a giocare a tennis.
Cosa ci può svelare dei suoi prossimi lavori?
I miei prossimi lavori, se elencati in ordine cronologico potrebbero rappresentare una mappa per scoprire un territorio misterioso, un modo per perdersi nell’umano. Dopo Medee che debutterà a Teatro dei Calanchi a Pisticci il 9 e 10 agosto, porterò in scena al Festival di Todi (30 agosto) Jacopo Ortis, per mia drammaturgia e regia, un monologo interpretato da Brenno Placido, un giovane attore dal grande talento. Nella prossima stagione metterò in scena La Signora delle Camelie, un mio adattamento del romanzo di Dumas, al Teatro Quirino di Roma e poi in tournée e Questo Amore con Laura Lattuada e Massimiliano Vado, dal romanzo di Roberto Cotroneo. Quindi l’amore sarà il filo conduttore dei miei prossimi spettacoli.
Quale sensazione ha prima di andare in scena?
Ascolto di nascosto il suono degli spettatori. Non cerco di captarne le parole, ma il suono delle voci, come una melodia. Mi metto in ascolto, con l’orecchio sul loro cuore.
E quando il sipario si chiude?
Si chiude davvero?
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