Oggigiorno la frenesia sembra essere diventata l’ unica legge applicabile alla nostra vita, tanto da non riuscire più a godere di un attimo di “tregua”. Si va sempre di fretta e di corsa e il tempo sembra talmente tanto ristretto, che pare quasi sfuggirci di mano. E’ senza dubbio l’effetto della modernità il verificarsi di queste circostanze che determinano la cosiddetta “società liquida”, giustamente profetizzata dal sociologo Zygmunt Bauman qualche anno fa, il quale affermava che «la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza».
Questo cambiamento continuo, frenetico e incessante al quale siamo sottoposti senza sosta ha modificato in noi anche gli stati d’animo, accentuando, da una parte, l’individualismo e, dall’altra, ha ridotto ai minimi termini il senso di comunità, molto caro alle generazioni che ci hanno preceduto. In questo contesto si sono creati dei nuovi equilibri, se così si può dire, nei quali il denominatore comune è il “disagio” di non saper più vivere la propria vita e non riuscire a godere non solo degli “attimi” unici che la compongono, ma neanche di riuscire più a coglierli ed immortalarli come poteva avvenire in passato. E non si tratta della solita retorica nostalgica del “si stava bene quando si stava peggio” o del “ai miei tempi era tutto diverso”, ma di un vero e proprio dato di fatto dal momento che gli usi e costumi oggi sono veicolati dal business (che in altre circostanze veniva definito con capitalismo, parola che in passato ha fatto tremare sia i “pro” che i “contro”) e cambiano talmente velocemente che non hanno il momento di affermarsi e, di conseguenza, anche le nostre vite e gli avvenimenti ne risentono al punto che le nostre stesse reazioni, che siano di gioia o di indignazione, per un episodio, sono molto fredde e misurate proprio perché non provocano quasi più un effetto di stupore “unico” del momento in sé.
Per farla breve, il consumismo e la velocità della vita hanno appiattito le nostre emozioni e desideri, tanto da, non solo non sorprenderci più per quel che ci accade intorno (anche perché gli avvenimenti sono sempre gli stessi intervallati da spazi di tempo regolari), ma anche di non avere originalità e creatività d’espressione.
In questo clima di incessante divenire, come abbiamo già accennato, tutto ciò che concerne la nostra vita ne risente, usi, costumi, umore, valori e finanche espressione artistica.
Perché l’arte è da sempre considerata l’espressione di un momento “senza tempo” o del “tempo che si è fermato per sempre”, ma ad oggi è veramente sempre più difficile che ciò avvenga perché i nostri tormenti e passioni sono passeggeri come le mode del momento e facilmente soddisfacibili grazie alla realtà virtuale e pertanto evanescenti ed evaporabili. Purtroppo l’avere tutto in maniera istantanea e facile ha sminuito il valore delle cose, che siano sentimenti o delucidazioni personali (così come avviene grazie a internet che in un secondo dal nostro smartphone riesce a soddisfare le nostre incertezze in un click), portando una conoscenza canterina da esibire nei social network, dando voce e crescita di ignoranza ed ego spropositato, sentimenti che sicuramente non porteranno a nessuna valenza artistica né tanto meno a vivere la propria vita come un’opera d’arte in sé, che altro non significa che essere se stessi.
Però non sempre la concezione del tempo da parte dell’uomo è stata sempre la stessa: si è trovata in costante mutamento in base all’evoluzione artistica, culturale e scientifica.
Per gli antichi greci, per esempio, c’erano almeno tre modi di indicare il tempo: aion, kronos e kairos.
Aion rappresenta l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo: è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; kronos indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore ed ha una funzione quantitativa; kairos, invece, indica il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, con una certa approssimazione, quello che noi oggi definiremmo il tempo debito, ma anche uno specifico periodo di tempo e il movimento del tempo che coincide con l’ eterno. Pertanto, a differenza di kronos, kairos ha una valenza qualitativa.
Senza divagarci troppo ed entrare nello specifico della leggenda, possiamo dedurre degli aspetti di kronos, o Crono, il quale assume dei caratteri negativi in quanto divora ciò che ha generato: è un padre oppressivo e ossessionato, che non tenta di far crescere il figlio, ma lo trattiene a sé, e nel suo affettuoso abbraccio maschile lo stritola, lo uccide.
Il maschio tipo Crono chiede in continuazione, ma non dona, non offre nulla di sé, è un predatore in ricerca perenne. Non è un amante felice, anche perché non è nemmeno veramente interessato alle donne, da cui pretende devozione totale.
Questo maschio è abituato infatti ad essere servito, non a servire.
Kairos, invece, significa “un tempo nel mezzo”, un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale “qualcosa” di speciale accade. Ciò che è la cosa speciale dipende da chi usa la parola. Chi usa la parola definisce la cosa, l’essere della cosa. Chi definisce la cosa speciale definisce l’essere speciale della cosa. È quindi proprio la parola, la parola stessa, quella che definisce l’essere speciale. Mentre kronos è quantitativo, kairos ha una natura qualitativa. Purtroppo nella lotta tra kairòs e kronos, kairòs è sempre stato perdente. È con questa perdita che la parola cessa e con essa il contatto con il divino.
Successivamente spetterà al poeta (termine che deriva da “poieo” , ossia “fare”) il compito di riordinare il verbo(logos), cioè la parola andata perduta, proprio perché il poeta è colui che “ fa la civiltà e la edifica” e attraverso il poetare, (la poiésis ), struttura e mette al posto giusto (kairós) il lógos (verbo) grecamente esperito del mito fondato, senza alcuna pretesa di realismo dei fatti, con una triplice funzione magico-iniziatica, religioso-morale ed estetica.
Tornando alla nostra vita quotidiana potremmo facilmente capire il perché oggi si sia perso il senso magico dell’esistenza, il motivo per cui un incontro, un avvenimento e un qualsiasi attimo non costituiscano oramai nessun valore degno di nota. Tutto ha un susseguirsi così frequente, tanto veloce e fugace da non riuscire a cogliere quel “momento giusto e propizio”, sinonimo tanto di kairos quanto di poesia, privandoci di quella bellezza necessaria e indispensabile per costruire e alimentare dei valori che la nostra società metropolitana non solo ha perduto, ma rischia nel tempo di non avere più testimonianza da trasmettere e tramandare alle generazioni future.
Del resto la vita ha senso se vissuta nel modo giusto e opportuno, onorevolmente, al proprio posto, e non in senso assoluto come nel Cristianesimo, ove quale qualsiasi vita è degna di essere vissuta.
Ognuno deve cercare se stesso e collocarsi in un determinato posto, così come Ulisse cercò disperatamente di tornare a Itaca proprio perché lì era il suo posto e vivere altrove non avrebbe avuto senso.
Un po’ quello che accade oggi a molti di noi.
Danilo Sandalo
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