Quasi cinquant’anni fa una pellicola parecchio sopra le righe faceva parlare di se, forse per l’approccio troppo naturale ad una (ultra)violenza quasi esasperata; forse per l’eccentricità del protagonista, Alexander De Large, capo banda dei Drughi, un gruppo di quattro giovanotti dediti a condotte criminali particolarmente efferate; forse per la strana collocazione del racconto in un futuro imprecisato e totalmente rimesso alla magistrale immaginazione e creatività di un Kubrick visionario e avveniristico, osannato da alcuni e contestato da altri: i primi perché ne apprezzavano il modo “spinto” e innovativo di fare cinema, i secondi perché all’ondata di cambiamenti tipici dell’epoca, in un’Inghilterra borghese e acchittata qual era quella degli anni Settanta, facevano fatica ad adeguarsi.
Sta di fatto che Arancia Meccanica, emblema di distopia moderna, al suo debutto newyorkese il 19 dicembre 1971, segnò irrimediabilmente la storia del cinema ed è oggi, più che meritatamente, quello che possiamo definire un cult cinematografico dal valore quasi simbolico, acquisito proprio grazie al suo grande successo.
A Clockwork Orange, questo il titolo originale in inglese; “una strana arancia ad orologeria”, così come la definiva il creatore della storia, Anthony Burgess, autore dell’omonimo romanzo distopico scritto nel 1962.
Le avventure di Alexander De Large, giovane teppista figlio di operai con il pallino delle scorribande notturne ed uno sviscerato amore per il grande Beethoven, insieme a quelle dei suoi compagni di merende Pete, Georgie e Dim (la banda dei Drughi), si svolgono in una Londra particolarmente optical e in stile pop, in un’epoca di certo collocata nel futuro, ma in un tempo imprecisato.
L’incedere della storia è prepotentemente dominato dalla musica; molti sono in brani di musica classica prestati al film, dal Guglielmo Tell di Rossini a La Gazza Ladra del “buon vecchio Ludovico Van” (è così che Alexander chiama il suo amato Beethoven), fino alla Nona Sinfonia.
La colonna sonora non è scelta a caso e, attraverso la combinazione delle musiche con le scene, permette una riflessione sulla forza di questa potente forma di espressione artistica, capace di plasmare l’animo delle persone e di indirizzarne le scelte, nel bene o nel male.
E nel caso del nostro Alexander, la musica è ispiratrice di condotte deplorevoli, poiché inculca nell’animo del ragazzo impulsi negativi, che tra una sregolatezza e l’altra, in un circolo vizioso di amicizie poco raccomandabili e serate all’insegna della depravazione al Korova Milk Bar, dove i Drughi si preparano all’ennesima notte di violenze tracannando un bicchierone di lattepiù, porteranno Alexander alla rovina.
Finirà in carcere a seguito di una tentata rapina, con una condanna a quattordici anni di reclusione, in un luogo dove – a dispetto di quanto avrebbe mai immaginato – non può più arrogarsi il potere di essere il predatore della storia, ma scopre che c’è gente al mondo perversa e cattiva quanto lui e forse anche di più.
È nel carcere che comincia il percorso di redenzione del protagonista, che si dedica alla lettura della Bibbia, diventa amico del cappellano e, grazie alla sua buona condotta, consegue l’accesso ad una terapia rieducativa sperimentale, sponsorizzata dal governo e chiamata, quasi per ironia della sorte, trattamento Ludovico, una cura che consiste nella somministrazione di farmaci e nella sottoposizione al paziente di lungometraggi contenenti scene di inaudita violenza.
Alla fine della terapia Alexander è un uomo diverso, incapace di perorare cause malvagie, inerme a qualsivoglia condotta criminosa, nauseato dalla violenza ed assolutamente non reattivo ai maltrattamenti che gli vengono impartiti per verificare se la cura ha sortito il suo effetto.
Una volta reintrodotto nel suo mondo e nella sua società, egli stesso diventa vittima della violenza di tutti coloro a cui nella sua vita precedente aveva fatto del male; ma in fondo Alex è solo vittima di se stesso.
Il destino a volte è strano e si diverte a prendersi qualche licenza; è la legge del contrappasso quella che viene applicata al “povero” Alexander De Large, un uomo che ha subìto una metamorfosi radicale diventando un indifeso. Tra una violenza patita ed un’altra, tenterà il suicidio, un gesto che – anche in tal caso – si rivela galeotto; ed ancora una volta, per ironia della sorte, il suo destino cambia di rotta.
Probabilmente per via dello shock subito a seguito del lancio dalla finestra nel tentativo di suicidarsi, Alexander, una volta uscito da un coma profondo scandito dal ritmo delle melodie di Beethoven, “ritorna in sé” ed approfitta dell’appoggio del Ministro dell’Interno che vuole evitare lo scandalo che sarebbe derivato dalla diffusione della notizia circa gli effetti del trattamento Ludovico sulla sua persona.
Alexander De Large, dopo qualche insistenza, ottiene di diventare il capo della Polizia e può finalmente tornare a dedicarsi a ciò che più gli piace: il sesso brutale e la violenza estrema, questa volta nella consapevolezza di non dover temere nulla e nessuno, perché dalla sua parte avrà la legge, “al servizio della quale” egli eserciterà il suo rinnovato potere e vivrà la sua nuova vita.
La sensazione che si prova di fronte a questo capolavoro del cinema è quella di volersi coprire gli occhi con le mani per non assistere a tale macabro spettacolo, ma al contempo di non poter fare a meno di aprire uno spiraglio tra le dita per via di una sorta di magnetica fascinazione che quelle scene trasmettono con tutta la loro forza, provocando nello spettatore uno stato di trans e di rapimento.
In alcuni momenti sembra quasi di essere nella scena, sarà per via dell’estremizzazione grandangolare di alcune riprese, o per quello sguardo accattivante e quanto mai feroce di un Malcom McDowell che interpreta il suo ruolo da protagonista con un’attitudine alla recitazione che è propria di poche stelle del cinema.
La storia ci trasporta in riflessioni più complesse di quelle che possiamo immaginare semplicemente raccontandone la trama, proprie di un’analisi ipercritica di uno spaccato epocale e sociale rispetto al quale l’intento di Kubrick diventa quello di ridicolizzare (e in fondo anche sradicare) quel malsano formalismo tipico della società inglese, una società per la quale “i panni sporchi devono sempre lavarsi in casa”, spesso a discapito della libertà di scelta individuale.
È proprio questo il fil rouge della pellicola, la libertà di decidere, la libertà di scegliere liberamente – e forse, paradossalmente, secondo uno schema anche un pò antidemocratico – quello che la nostra vita deve diventare, in un tripudio di realismo e allucinazioni provocate da un singolare bibitone a base di latte migliorato con anfetamina.
Non sorprenderà certo sapere che la realizzazione di Arancia Meccanica abbia causato a Kubrick non pochi problemi di vita sociale, per via delle minacce di morte che lo raggiunsero a seguito delle riprese, probabilmente legate al fatto che le intenzioni dell’artista e regista celavano l’intento, totalmente irriverente, di ridicolizzare e contestare un sistema statale che, pur di ottenere consensi (lo sfollamento delle carceri, un buon esito elettorale e una collaborazione con la componente non laica del Paese) autorizzava scelte discutibili, che (nel film) si traducono nell’uso di una terapia-tortura definita trattamento Ludovico.
Queste e molte altre le riflessioni che fanno di Arancia Meccanica un film complesso e di certo non alla portata di tutti, poiché sebbene quasi chiunque abbia visto questa pellicola almeno una volta nella propria vita, la constatazione alla quale non si può sfuggire è che guardare un film è tutt’altra cosa che viverne la storia e comprenderne il linguaggio.
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