Sono stato così sciocco Vassili… Con tanta fatica abbiamo provato a creare una società che fosse giusta, dove non ci fosse niente da invidiare al tuo compagno. Ma ci sarà sempre qualcosa da invidiare: un sorriso, un’amicizia, qualcosa che non hai e di cui ti vuoi appropriare. In questo mondo, perfino nel mondo sovietico, ci saranno sempre i ricchi e i poveri. Ricchi di talento, poveri di talento. Ricchi di amore, poveri di amore.
(Dal film “IL NEMICO È ALLE PORTE”)
Uno dei vizi capitali più detestati è sicuramente l’invidia. È un sentimento acrimonioso sia per chi lo prova che per chi lo riceve.
Si nutre di rabbia e di fiele e riesce a sopravvivere nei secoli nonostante il suo stesso disappunto e la sua controversia. Sì, perché, a quanto pare, nessun invidioso ammette di esserlo, o quantomeno si autoconvince di non provare alcun risentimento di genere nei confronti altrui, tra l’altro con l’ardire di disdegnare chi ne nutre. Eppure esistono eccome gli invidiosi, da tempi immemori.
Basti pensare a Dante Alighieri, che li collocava nell’inferno, addossati ad una parete del monte a chiedere l’elemosina, vestiti di abiti stracci, ruvidi, pungenti e nodosi, e con sembianze di ciechi.
I loro occhi, traboccanti di lacrime, apparivano, infatti, cuciti da un fil di ferro, da cui queste ultime trapassavano a fatica. Il contrappasso era evidente: da vivi non erano mai stati capaci di osservare davvero il prossimo, il desiderio di felicità altrui, l’interiorità di ciascuno, ma si erano concentrati unicamente sui beni che possedevano e a cui loro stessi avrebbero aspirato ardentemente. Così, nell’aldilà, erano puniti venendo privati della vista, in modo da non poter guardare che con il cuore. Del resto, il concetto non poteva essere espresso meglio.
La descrizione di questo malevolo impulso ne La Divina Commedia resta molto esaustiva: si connota di tratti sempre più modernamente sconfortanti ed attuali, ma è pur sempre lo stesso. Adeguandoci ai tempi, potremmo affiancargli un aggettivo corrente più che mai: sociale.
C’è gente che si corrode il fegato perché non riesce a comprare l’ultimo modello di smartphone o di automobile, uguale a quello acquistato dall’amico ricco. C’è la rabbia per chi sui social network ottiene più like degli altri. C’è chi, tacitamente, lamenta un copioso sversamento di bile quando si accompagna a qualcuno di un ceto sociale più alto o ad una persona economicamente più benestante.
Ancora di più in tempi come quelli odierni, in cui l’ascensore sociale, ad esempio, risulta essersi bloccato sul piano del dinamismo: molti credono che le proprie capacità e qualità non siano sufficienti a farli salire di livello. Pertanto, preferendo continuare a cullarsi nel proprio limbo di ignavia e pigrizia, finiscono per impedirsi una crescita ed uno sviluppo personale che li costringe a guardare di traverso chi invece, non fossilizzandosi, riesce a permanere o elevarsi su una fascia superiore.
L’invidioso sociale non sarà felice – dunque – del successo altrui, ma tenderà a sminuirlo ipotizzando possibili privilegi personali particolari, per mortificare le competenze reali o la superiorità di chi lo ha raggiunto. Si sentirà sfortunato, incompreso, tradito, pur di non ammettere la sua inferiorità, in primis interiore, che lo rende subalterno agli altri, per colpa di nessuno se non di sé stesso.
Utilizzerà parole poco gentili e si stizzirà perché riconoscerà la potenza dell’invidiato. Cercherà in ogni modo di ostacolare il percorso altrui o di complicarlo. E soffrirà, soffrirà anche nel corpo.
Alcuni studi, condotti da scienziati giapponesi, hanno infatti dimostrato che in chi prova invidia si attiva la corteccia cingolata dorsale anteriore, la stessa area cerebrale che si accende quando si prova dolore fisico. Al contrario, in chi è soddisfatto e felice l’area attiva è quella dello striato ventrale, la stessa che funziona quando si mangia del cioccolato, quando si ride o si pratica del sesso.
L’invidioso sociale vive in uno stato di silenziosa solitudine interiore, che cela agli altri per evitare di farsi riconoscere nella propria infelicità, ma che sbadatamente manifesta quando prova ad intralciare o infangare la scalata altrui: tutto ciò è davvero poco intelligente e produttivo anche sotto il punto di vista della sopravvivenza.
A tal proposito, è stato scientificamente appurato che un atteggiamento cooperativo riesce a tenere unito un gruppo e garantirgli sostentamento nel tempo, al contrario di un singolo che, potendo contare unicamente sulle proprie forze, riesce molto più difficilmente a procacciarsi ciò di cui ha bisogno. In buona sostanza, l’invidia sociale è un freno all’evoluzione: della specie, della società, dell’ascesa individuale, soprattutto quando raggiunge i suoi apici, quelli che confluiscono e culminano in un odio primordiale, primo fattore distruttivo di ogni cosa e distorsivo della realtà.
Essere migliori senza invidiare nessuno è possibile se solo si riuscisse a trasformare quel brutto sentimento in una sana competitività: concentrarsi sulla propria vita, e non su quella degli altri, fissandosi dei traguardi da raggiungere è l’unico vero grande passo verso la propria felicità.
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