“Beat doesn’t mean tired , or bushed, so much as it means beato, the Italian for beatific : to be in a state of beatitude , like St. Francis, trying to love all life, trying to be utterly sincere with everyone, practising endurance, kindness, cultivating joy of heart. How can this be done in our mad modern world of multiplicities and millions? By practising a little solitude, going off by yourself once in a while to store up that most precious of gold: the vibrations of sincerity.”
[ “Beat non vuol dire stanco, ma beato: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, provando ad essere totalmente sincero con tutti, praticando la sopportazione, la gentilezza, coltivando la gioia del cuore. Come può essere fatto tutto ciò nel nostro pazzo moderno mondo di molteplicità e milioni? Praticando un po’ di solitudine, uscendo da sé stessi una volta ogni tanto per far tesoro di qualcosa che è più prezioso dell’oro: le vibrazioni della sincerità.”].
Fu il critico Clellon Holmes ad utilizzare per la prima volta l’espressione “Beat Generation” in un articolo dal titolo “This is the Beat Generation” pubblicato sul New York Times il 16 novembre del 1952.
Il termine beat però fu coniato nel 1948 da Kerouac, del quale Clellon Holmes era amico, che intese riferirlo a un movimento culturale e letterario nato negli Stati Uniti d’America nell’ambito di una piccola cerchia di studiosi e scrittori che orbitavano attorno alla Columbia University di New York a metà degli anni quaranta, per poi sbocciare e intercettare l’interesse dell’editoria circa dieci anni dopo.
Quella che si voleva fotografare con l’espressione Beat Generation era l’immagine di una generazione che da quella precedente aveva ricevuto in eredità una “pace fredda” e regole insopportabili da accettare e sostenere; una generazione che aveva deciso di ricercare e individuare il rifugio per la propria istintiva individualità nella dissipatezza degli eccessi, nelle droghe, nell’alcol, nelle filosofie zen e nelle religioni orientali.
E d’altra parte non pare proprio un caso che al termine beat si conferisca il significato di beato, da beat-itude, proprio per descrivere lo stato di alterazione psicofisica che i beat raggiungevano attraverso l’assunzione di droghe prevalentemente sintetiche, utili – a loro avviso – alla sperimentazione delle più svariate forme di arte e di espressione del pensiero.
Una generazione promiscua, senza ombra di dubbio, quella dei beat-i: artisti, scrittori, pittori e rappresentanti del movimento culturale che ha operato attivamente fino agli anni Settanta, ma che è rimasto vittima di se stesso e di una pubblicizzazione eccessiva, tanto spinta da danneggiarne l’identità.
Il fenomeno nel suo complesso, infatti, è decisamente più conosciuto dei suoi singoli esponenti e dei loro scritti; le espressioni artistiche diverse dalla scrittura che si appartengono all’epoca della generazione beat sono decisamente più conosciute e commerciali delle opere di prosa o di poesia degli iniziatori della corrente culturale. Basti pensare alle mille salse in cui ci è stata propinata l’opera di Andy Warhol, ben nota al pubblico di massa e anche oltre, e a quanto poco invece si conosca il pensiero di Kerouac e di Ginsberg, additati severamente dalla critica dell’epoca, che fece previsioni a dir poco funeste su quello che sarebbe stato l’esito del loro cimentarsi nel fare i pensatori.
Una particolare assonanza si ritrova tra lo slang utilizzato dai beat e il ritmo della musica jazz (in particolare del bop di Charlie Parker), per via dell’intensità che viene percepita dal lettore, in un caso, e dall’ascoltatore, nell’altro caso. Il “linguaggio” dello scritto, così come quello della musica, è repentino, quasi violento, allusivo, denso di pathos, confuso; è un linguaggio espressivo che tradisce il concetto principale e si distacca dalle convenzioni, non procede secondo regole canoniche e si perde nei meandri delle immagini laterali o delle variazioni.
I beat non hanno un passato da ricordare, né vedono futuro dinanzi ai loro occhi; la loro dimensione coincide con un presente rispetto al quale manifestano il massimo disadattamento e da cui fuggono per trovare rifugio e liberazione attraverso l’orgasmo, la mistificazione, la musica o le droghe.
Liberi pensatori, visionari, ribelli e dannati; è questo che si ricorda pensando ai beat, al loro desiderio di ignoto e al loro spirito avventuriero, insaziabile e mai soddisfatto.
“C’è sempre qualcosa di più, un po’ più in là…non finisce mai“.
Jack Kerouac
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