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REBOOT E REMAKE, QUANDO IL PASSATO DIVENTA NOCIVO PER IL CINEMA

Reboot e Remake, che strane parole. C’era un tempo in cui ero un cacciatore di trailer, sempre in attesa di vedere quale nuovo film sarebbe uscito. Che fosse su internet o nelle pubblicità televisive, ero capace di interrompere tutto e gustarmi l’anticipazione. Il discorso al passato non è un caso, badate bene. E non è che ho perso la passione per le belle storie o il cinema d’emozione, semplicemente non riesco a concepire la tendenza moderna al remake, al reboot. 

Ultimamente sembra che Hollywood abbia aperto i vecchi bauli pieni zeppi di ricordi in soffitta e stia svuotando il tutto, utilizzando come discarica i cinema. Che sia una conseguenza della moda del vintage o meno, siamo vittime di una massa di pellicole che echeggiano miti del passato, quasi sempre della decade degli eighties. 

Remake e Reboot ovvero tutto il peggio degli anni ’80

Sembra, infatti, che tutto ciò che è passato al cinema o in televisione in quegli anni fosse la perfezione, una mistica alchimia di storia e ambientazione che va nuovamente riprodotta, da dare in pasto ai nostalgici e con cui stuzzicare nuovi appassionati. Una tendenza che ci viene presentata in ben tre, devastanti modalità: remake, reboot, sequel. 

Il remake è presentato sotto la maschera dell’omaggio, del voler ripresentare una storia particolarmente emozionante in una dinamica nuova, fresca, moderna. Che se una storia è nata in un certo modo, con un certo stile ed una determinata connotazione storica, si può sapere perché dobbiamo stravolgerne le caratteristiche adducendo, come scusa, il volerla rendere moderna? Sarebbe più facile e dignitoso ammettere che non si hanno più idee, che il timore di prendere cantonate e scontentare il pubblico di massa è talmente alta che si ritiene più cauto, in un rapporto spesa/rischio, tentare di riprodurre un qualcosa che ha già funzionato in passato. 

E da qui arrivano prodotti come la nuova, ridicola serie tv di MacGuyver o il film di Magnum P.I. in arrivo prossimamente. Roba che il ragazzino che è cresciuto con quei miti lo senti urlare dentro. Perché ora bisogna stravolgere tutto in un’ottica di politically correct. Certi atteggiamenti degli anni ’80 erano possibili perché rappresentavano anche un’altra stuttura sociale, in alcuni aspetti oggi imprensentabile. Ma si sa, è un remake, si possono, anzi, si devono prendere delle libertà, mica possiamo fare tutto uguale a com’era. Perché farlo, allora? 

Ma se il remake è fastidioso, non parliamo del reboot. Prendete Star Trek, che nel 2008 finisce nella mani di Abrams e subisce una delle più deboli operazioni commerciali degli ultimi anni, soprattutto in termini di rispetto all’opera originale. I reboot sono il male, diciamolo pure. 

Sarebbe come andare da Manzoni e dirgli che I Promessi Sposi è un bel libro, stupendi i personaggi, grandiosi i villain, ma ora rivoluzioniamo tutto, facciamo che andiamo sul Trasimeno che il lago di Como sa di vecchio, e Renzo e Lucia in realtà sono Renzo e Lucio, che è più moderno, più trasversale, più attuale. 

Il reboot si impone come l’esempio perfetto della mancanza di idee, cui si unisce la voglia di modificare un’idea che piace ma avuta da altri, spesso rovinandola. Prendo la tua bella idea ma la presento come la farei io, che inventarmi qualcosa non riesco. E nascono degli insulti come l’ultimo Ghostbusters.

Sequel, Reboot e Remake la trinità del trash

Ma il reboot è anche un utile strumento di sfruttamento. Nel mondo dei cinecomic, ad esempio, è lo strumento perfetto per continuare a sfruttare un personaggio anche a fronte di cambi di gestione e crollo di consensi, come accaduto con Spider-Man o I Fantastici Quattro (che al cinema di fantastico non hanno mai avuto nulla, ammettiamolo).

Manca la terza componente di questa trinità della nostalgia: il sequel. Séguiti di film arrivati dopo anni, declinati anche nella loro controparte cronologica, il prequel. Tendenzialmente, sono quelli su cui ho sofferto meno, ma che hanno spesso mostrato come spesso non sia necessario spiegare cosa sia accaduto prima o dopo un’avventura leggendaria, soprattutto se non si hanno idee, o peggio, se ne hanno poche e tragicamente confuse. 

Ridley Scott in questi ultimi anni, ad esempio, è riuscito a rovinare Alien con dei prequel che, tolto lo spettacolo visivo, hanno una trama che sembra un’autodiagnosi di demenza senile (contrariamente a quanto dice Leo Ortolani). Con tutto il bene che si può volere a Scott (poco, vista la nomea che lo precede). Curiosamente, proprio il seguito di un capolavoro di Scott, Blade Runner, ha saputo dare un barlume di dignità a questa moda attuale del cinema. 

Questo legarsi al passato, al temere di osare e lanciarsi verso nuovi orizzonti è un pericolo. 

Da un lato, sta privando capolavori del passato della loro bellezza, ne mina quelle caratteristiche che li hanno resi avvincenti ed appassionanti scalfendone i punti essenziali, imponendo nuovi personaggi che, tolto il nome, non hanno nulla del personaggio originale. 

Dall’altro, traspare una carenza di idee e di coraggio, come se il calore dei ricordi fosse il riparo ideale dal timore dell’insuccesso, la perfetta scusa dietro cui nascondere una mancanza di nuove idee. Gli anni ’80 hanno visto fiorire capolavori non solo dal punto di visivo ma anche da quello narrativo, ora sembra che quella vena di creatività si sia affievolita, costretta a rinnovarsi sempre nello stesso spirito, con una nuova veste magari, ma che non nasconde la debolezza di una vecchia storia già nota, condannandola spesso alla più atroce sofferenza: la perdita della propria identità a causa dei reboot e remake.

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