“Non è il reale che noi pensiamo. È un fantasma del reale”.
Due o tre cose che so di lei è un film del 1967 diretto da Jean-Luc Godard e interpretato da Marina Vlady, Annie Duperey, Roger Montsoret e Jean Narboni. Descrivere in poche parole cosa questo film significhi per la società moderna e soprattutto per la cinematografia mondiale, è molto difficile, poiché molti e sfaccettati sono gli aspetti da prendere in esame. Prima, però, di addentrarci nella scoperta di questo film, decadenza e superamento della Nouvelle Vague, è doveroso fare delle premesse.
Per chi non avesse mai sentito la curiosità di scoprire quella parte della cinematografia mondiale denominata Nouvelle Vague, possiamo dire che questa funzioni un po’ come l’impressionismo di Renoir in arte. La violenza e la crudezza della realtà, dei sentimenti e soprattutto della vita vissuta, fanno da padroni in questo genere cinematografico che mescola sapientemente fiction e realismo, incanto formale e durezza dei contenuti.
Oggi abbiamo deciso di parlarvi di Due o tre cose che so di lei, proprio perché questo film racchiude tutte le istanze della Nouvelle Vague e le supera tutte, proprio grazie al genio di Godard e il suo spirito innovatore, la sua genialità e il suo essere trasversale ai tempi pur essendone testimone.
LA STORIA CONTINUA
Lo spunto di Godard, il moto che genera l’azione cinematografica, è sicuramente il reale. Deux ou trois choses que je sais d’elle è il comple(ta)mento di Vivre sa vie (Questa è la mia vita). Anche in questo caso il film nasce dalla libera interpretazione di un’inchiesta giornalistica sulla prostituzione (pubblicata da Catherine Vimenet su Le Nouvel Observateur). La protagonista del nostro film è una prostituta che si vende per rispettare le regole del mercato, per comprare le merci, i prodotti, di una vita deificata, mercificata e resa inutile dal consumismo.
Ma, se in Questa è la mia vita, Godard ci presentava una donna, una prostituta inconsapevole, romantica e decadente, in Due o tre cose che so di lei, Juliette (Marina Vlady) si muove come un vero e proprio marchio registrato. Ella è padrona del suo corpo, delle sue azioni e del suo business. Le azioni che compie, però, sono scisse dal nucleo del suo essere: i suoi desideri provengono da un luogo recondito risultandole profondamente inesplicabili, i suoi sogni le danno l’impressione di andare in frantumi e i suoi risvegli le procurano il terrore che le manchino dei pezzi. Detto altrimenti, Juliette sa quello che vuole, ma non sa perché.
Il corpo della nostra protagonista è merce di scambio per uno status symbol. Il corpo meraviglioso della donna che si staglia colorato nel grigiore della periferia francese è un quadro astratto, contemporaneo. L’accostamento estetico di due idiosincrasie che generano arte.
L’IMPORTANZA
Godard è stato per il cinema ciò che Darwin è stato per la scienza. Tante le innovazioni tecniche che il regista francese ha portato sul grande schermo. In Deux ou trois choses que je sais d’elle Godard magnifica gloriosamente la figura della panoramica circolare, elevandola a forma espressiva suprema, struggente abbraccio visivo e implacabile giro d’orizzonte sugli uomini e le cose. Per ripartire da zero, finalmente in armonia: “Le paysage c’est pareil qu’un visage”.
Il film di Godard è oggi più attuale che mai. A cinquant’anni di distanza la deriva dei costumi e dei valori che stiamo vivendo è sintomatica di qualcosa che si perde nella memoria del tempo. Essere schiavi di un sistema consumistico ci permette di vedere dall’interno la critica aspra che Godard ha mosso alla società. Cercare l’indipendenza vuol dire semplicemente essere produttivi per dipendere dalle merci che dobbiamo avere.
È, ovviamente, una spirale da cui non potremo uscire poiché tutti noi siamo all’interno di un sistema che non possiamo controllare. La bellezza formale della pellicola è devastante. Il turbinio di immagini che Godard ci propone ci rivelano la verità più profonda del nostro animo. Tutti siamo coinvolti e tutti pensiamo di non esserlo. La verità è alla base del film. Ed è oggi importante rivalutare la pellicola, rivederla e, soprattutto, parlarne. Siamo schiavi consapevoli, siamo merce di scambio, siamo nulla e siamo tutto, potremmo cambiare, ma è davvero ciò che vogliamo?
Prima, quando sognavo, avevo l’impressione di essere aspirata da un grosso buco, di sparire in un grosso buco… Adesso, quando sogno, ho l’impressione di sparpagliarmi in mille pezzi… E prima, quando mi svegliavo, anche se il sogno era lungo, mi svegliavo tutta d’un colpo. Adesso, quando mi sveglio, ho paura che manchino dei pezzi.
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