Politically Correct è un’ espressione che, dopo anni in cui è stata invocata come una speranza lontana, è diventata quasi una minaccia, uno spauracchio, l’incarnazione del detto ‘attento a cosa desideri’. Eppure, in un periodo di barbarie dialettiche come il nostro, l’idea di avere un codice etico che ci indirizzi sul come esprimerci dovrebbe essere auspicabile, visto come il fiorire di odi e rivalità irragionevoli, abbiano trasformato l’agorà digitale in una sorta di costante campo di battaglia.
La concezione originaria di politically correct era, a tutti gli effetti, un’idea intelligente, il voler tenere conto di una sensibilità che unisse, almeno emotivamente e eticamente, differenti aspetti della vita comune, rendendo più facile la convivenza civile, magari portando anche un principio di comprensione dell’altro.
Peccato che anche le migliori intenzioni possano diventare un’arma a doppio taglio. La soglia del politically correct, inizialmente vista come un’encomiabile tutela della sensibilità altrui, è rapidamente diventata una sorta di scudo dietro cui nascondere intenti più furbi e meno nobili, trasformando un principio di sana interazione in uno strumento di propaganda. Oggi, ad esempio, il principio di politically correct ha quasi raggiunto il suo esatto contrario, ribaltando il concetto stesso che gli ha dato i natali.
Un esempio paradossale arriva dal mondo dei comics, dove l’eroe che per antomasia incarna solo aspetti positivi, Superman, è stato preso di punta dalle associazioni di genitori americani perché in un suo albo recente uno dei cattivi accusa un proprio tirapiedi di non esser all’altezza delle sue aspettative, dandogli dell’autistico. È offensivo? Ovviamente. È politically uncorrect? No.
Stiamo parlando di un cattivo, di un personaggio che deve risultare odioso e che, per assurdo, sta utilizzando un atteggiamento che rispecchia la realtà più di quanto ci piaccia ammettere. Eppure Bendis, autore della storia, ha dovuto scusarsi, le prossime ristampe non avranno questa battuta e la sindrome da James Gunn colpisce ancora. Tutto perché la battuta sprezzante del villain di un fumetto non era politically correct. Non è corretto che un cattivo sia perfido, offensivo, crei un contrasto emotivo con il buono, con il personaggio positivo, divenendo anche uno strumento di crescita morale per il lettore, specialmente quello più giovane.
Ed ecco che questo principio di rispetto è diventato un’ombra che imcombe costantemente sulla libertà di parola e di espressione. Il limite del politically correct si è sempre più allargato, ingabbiando la società dietro la facile illusione che basti aggirare il limite della parola per eliminare il problema. Non diciamo più parole come spastico, handiccapato o Down per non ledere la sensibilità di chi è afflitto da certe patologie, ma nei fatti, quanto aiutiamo queste persone ad integrarsi nella società?
Concordiamo nel dire che si era arrivati a utilizzare certi termini con un’accezione offensiva, ma anziché riportare le parole al loro significato, si è preferito creare nuove locuzioni in loro vece. Si è portatori di handicap, perché handicappato è un termine offensivo, spastico è una brutta parola. Eppure, spastico, ad esempio, non è una parola deplorevole, ma ha origine dalla terminlogia medica, ed indica una precisa patologia.
Avvalendosi del comodo paravento del politically correct abbiamo perso la sensibilità verso le parole, abbiamo rifiutato la faticosa, ma necessaria, opera di educazione di rispetto palpabile nella vita quotidiana, creando delle barrierie ancora più rigide ed ingannevoli intorno a coloro che dal politically correct dovrebbe esser sostenuti nel percorso di integrazione.
E da questo è nata anche una falsa sensibilità verso gli altri, una sorta di pudore fittizio che ci porta a dire ‘operatore ecologico’ anziché ‘spazzino’, perché indichiamo un lavoro che viene ancora indicato come di infimo livello. Non abbiamo imparato ad apprezzare l’apporto essenziale di chi garantisce di vivere in una città pulita, abbiamo preferito creare una parola nuova che gli dia una caratura un po’ più gradevole, ma che usiamo solo per urtare certe sensibilità o darci un tono, perché, alla fin fine, ancora oggi certe madri incitano i figli a studiare perché ‘vuoi mica finire a fare lo spazzino?‘.
Ecco la conseguenza di un uso sbagliato del politically correct. Avrebbe dovuto aiutarci a migliorare come persone, non era uno strumento con cui riformare la lingua per sentirci meno in colpa verso gli altri, ma era la nostra via di crescita, il far leva su una comprensione che ci aiutasse, ad esempio, a dire Down con cognizione e rispetto, facilitandone l’integrazione e non mantenendo comunque un distacco.
La realtà è che oggi siamo limitati nell’esprimere certe considerazioni perché ci sentiamo preventivamente soggetti ad una censura che sappiamo potrebbe abbattersi su di noi. Ricordo un interessante articolo di Luca Mastrantonio sul Corriere della Sera in cui venivano presentati casi limite in cui il politicamente corretto diventava una barriera alla libertà di espressione. Possono criticare una persona di colore senza esser definito razzista? Se sono contrario ai matrimony gay sono automaticamente omofobo?
Il politically correct è pericolosamente vicino a diventare il perfetto strumento di controllo di un pensiero dominante in cui il confronto tra differenti visioni, purchè ragionate e eticamente sostenibili, possano confrontarsi su un terreno comune di dialogo e reciproca comprensione. Oggi invece sembra essere lo spettro con cui minacciare chi non la pensa come noi spingendolo ad uniformarsi, a non concepire che il politcamente corretto sia la voce della maggioranza, che si traduce in una minaccia di emarginazione ottenuta con l’imposizione di una supposta superiorità morale.
Eppure, continuo a credere nel politicamente corretto, se vissuto con una limitazione concreta e corretta, lasciando anche la libertà alla satira di unpolitcally correct all’occorenza, proprio per mostrare come sia necessario avere una guida etica per proteggerci da certe brutture.
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