ATTUALITÀ

LA STRAGE DEL PONTE MORANDI E QUEL SELFIE FUORI LUOGO

Della tragedia che si è abbattuta su Genova si è detto di tutto, tra verità e costruzioni fantasiose, con il solito giochino di scarico di responsabilità che dovrebbe pesare su certe coscenze più dei massi che hanno sepolto le vittime del ponte Morandi. C’è però un aspetto che ci ha lascia interdetti, al limite dell’atrocità di un alvi profluvium: il selfie di Salvini ai funerali di Stato delle vittime del crollo del ponte Morandi.

L’immagine ha colpito in modo così duro proprio perché questa tragedia l’abbiamo sentita particolarmente nostra. Vedere una cerimonia struggente, per poi assistere a certe scene non è proprio il massimo, ma per quanto sia odioso ammetterlo, è lo specchio dei tempi che stiamo vivendo. E prima che qualcuno inizi a puntare il dito su Salvini, ricordiamoci di funerali di Tina Anselmi in cui anche Renzi aveva ceduto al selfie funerario. In quella gara all’accusa che ha trasformato la politica in una gogna continua, da cui nessuno sembra salvarsi, questa ennesima bruttura non dovrebbe più stupire, a ben pensarci. 

Quello a cui abbiamo assistito a Genova non è altro che l’evoluzione oscura del quarto d’ora di celebrità di Warhol, quel voler apparire, brillando di luce riflessa, per un istante. Non conta il luogo, non conta il contesto, conta l’aver il dito rapido e una fotocamera con i pixel sufficienti. Se vent’anni fa nessuno avrebbe pensato di farsi una foto al funerale delle vittime di una strage, oggi questo è paradossalmente normale, un gesto naturale. Orrendo, ma naturale per chi è ormai avvezzo a trasformare ogni istante della propria vita in uno screenshot da postare su Facebook o Instagram. 

I due attori di questo scandaloso gesto sono ugualmente criticabili, ma su piani diversi. 

Chi ha chiesto il selfie, evidentmente, non avrebbe dovuto essere lì, o, quantomento, avrebbe dovuto esserci per altri motivi. Si presume che in una simile occasione sia necessario un certo contegno, invece al passaggio della celebrità di turno il cordoglio lascia il posto alla voglia di un ricordino, una foto da esibire come se la si fosse scattata ad un concerto. E i morti? Cosa importa, ho la foto col ministro. Facile provare ribrezzo per un gesto simile, ma va anche contestualizzato in una società in cui il valore di una persona si misura sempre meno sui principi e sempre più sui like, in cui il silenzio ti rende invisibile mentre lo scatto vincente ti porta popolarità, visualizzazioni. 

Siamo onesti, tutti noi quando mettiamo un contenuto su Facebook o altri social andiamo a controllare quante reaction, quanti commenti, vogliamo sentirci apprezzati o seguiti. Il limite è in che modo, fin dove siamo disposti a spingerci per avere questa gratificazione virtuale. Evidentemente, qualcuno è disposto a calpestare una bara, metaforicamente parlando, ma questo rientra nel campo della propria coscienza, ammesso se ne abbia una. 

Diverso è il ruolo di chi acconsente a questa pratica. Perché se qualcuno chiede il selfie, significa che altri lo devono concedere. E qui dovrebbe entrare in gioco il senso di pudore di chi rappresenta le istituzioni. Quantomeno, Salvini ha avuto il buongusto di non sorridere, contrariamente all’arcata dentale in bella mostra di Renzi quando toccò a lui acconsentire. Eppure, in entrambi i casi, due personalità che rappresentano lo Stato hanno scelto di non tutelare lo spirito dell’evento a cui presenziavano, preferendo cedere alle lusinghe di un ammiratore per una foto. 

Ecco, qui scatta l’indignazione. Questa atmosfera da campagna elettorale perenne, fatta di foto e slogan, di attacchi violenti e critiche di bassa lega, ha ridotto il viver civile ad una giungla amorale e priva di umanità. Ma, anzichè sottrarsi e svolgere un ruolo di educazione, mostrare una tutela di certi principi, ci si abbassa al gioco della visibilità, si alimenta la bestia che sbrana rispetto ed una emozione, in virtù di un apparire che sembra essere il solo valore universalmente valido per esser riconosciuti come uno importante, uno che conta. Il resto non importa, alla fine sei tutto chiacchere e visualizzazioni, solo chiacchiere e visualizzazioni. 

Lo sdegno esploso nel veder la foto di un selfie in questa circostanza non ha però tenuto conto di chi, anzichè urlare una sdegnata condanna, ha preferito scattare la foto. Partecipando al ‘reato’, volendo immortalare il gesto anzichè condannarlo, strumentalizzandolo per propri fini. Un circolo vizioso che non si è interrotto. 

Purtroppo, però, non è la prima volta che la voglia di apparire e di essere celebri protagonisti di un lutto la fa da padrona. Ai tempi dell’omicidio di Garlasco vennero create foto posticce per creare un finto legame con la vittima pur di esser celebri, ad Avetrana arrivavano le comitive per vedere casa Misseri e le scene del crimine, e non serve ricordare certo il turismo al relitto della Concordia. La spettacolarizzazione del dolore è ormai un elemento quotidiano, complice una televisione in cui ogni sordido aspetto viene enfatizzato per nutrire la curiosità morbosa e generare ascolti. Più scavi nel marcio, più gente viene a guardare. 

Il selfie condannato è solo l’ennesima manifestazione di questa dinamica impazzita. Condannarlo, per quanto giusto, dovrebbe essere solo il primo passo verso una rinascita di un’umanità che sembra ormai assente, soffocata. Possiamo solo sperare, mal che vada ci faremo un selfie alla messa di settima della dignità umana, oppure durante la settimana delle salme a guardar passare il cadavere di Utopia.

Foto in evidenza.

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