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BARBONAGGIO TEATRALE: INTERVISTA A IPPOLITO CHIARELLO

«Da quel debutto e dal disagio come uomo e come artista rispetto al sistema arte e teatro in particolare in Italia e rispetto più intimamente alla vita di ogni giorno come essere umano, è nata la necessità di fermarsi e trovare una strada nuova da percorrere».

Quello del Barbonaggio teatrale è, indubbiamente, un progetto con una marcia in più. Fonte di ispirazione e modello per altri artisti, lancia un messaggio forte e chiaro: da un momento di crisi può nascere qualcosa di spettacolare e la noia è il miglior vettore per grandi intuizioni.

È ciò che è successo il 28 agosto 2009 ad Ippolito Chiarello, artista pugliese che spazia dalla recitazione, alla musica, dalla stesura di testi, alla formazione, e che grazie al suo estro lancia il Barbonaggio teatrale, scorporando lo spettacolo “Fanculopensiero stanza 510” in 11 pezzi e assegnando un prezzo ad ognuno.

Ma cosa sia realmente questo concetto diventato format, questo nuovo stile di far teatro, lasciamo che sia lo stesso Ippolito a raccontarcelo.

Buonasera Ippolito, grazie per aver accettato di rilasciare un’intervista a Metis Magazine. Ci racconti la sua storia, quando ha avuto inizio la sua carriera artistica?

Se dovessimo partire da lontano non ho mai voluto fare l’attore, l’artista; volevo fare l’architetto o il medico di famiglia. La mia carriera artistica è iniziata per caso, il caso è una componente importante nella vita di una persona. A sedici anni uno zio che è un compositore, cantautore, legato più alla sfera religiosa aveva un gruppo musicale a Corsano  e, nonostante, fosse un gruppo parrocchiale era veramente forte, mi propose di collaborare con loro ad un recital su San Francesco: “Forza venite gente”. Iniziai con molto entusiasmo, facendo anche altro poiché mi sono sempre interessato a tutto. Il 3 aprile 1983 salii per la prima volta su un palco e da quel momento non ho più smesso di fare quello che faccio. Ho iniziato in maniera amatoriale, poi sono passato a fare teatro dialettale, teatro in lingua, ho fondato la mia compagnia.

Mi sono laureato in Storia del teatro, con una tesi in due volumi, con un grande personaggio del mondo teatrale, Dario Fo, che ad un certo punto mi ha anche chiesto di fare il suo biografo, ma dopo averci pensato per un po’ decisi di rifiutare l’offerta. Tutti mi hanno sempre detto di aver commesso un errore non accettando, ma io non credo sia così perché volevo fare altro.

Nel ’95 avevo deciso di non fare più teatro, ma un mio amico mi convince a partecipare ai provini che avrebbero fatto ai Cantieri Teatrali Koreja; in scena sarebbe andato, durante l’estate, uno spettacolo su Shakespeare. Decisi di andare e incontrai Salvatore Tramacere di Koreja e da lì partì quest’esperienza, lo spettacolo andò molto bene e rimasi per dieci anni a lavorare con la loro compagnia.

 Nel 2004 decisi di andar via, dividemmo così le nostre strade, e ho iniziato il mio percorso personale scegliendo di lavorare anche con altre come scritturato, poi nel mondo del cinema e della formazione. Successivamente ho fondato la mia compagnia, NASCA- Teatri di Terra.

Continuo a dire che oltre ad essere un attore, sono soprattutto uno che cerca di comprendere le altre arti, pensare alla figura dell’attore che sale esclusivamente sulla scena è restrittivo.

In un contesto socio culturale come quello odierno in cui la fruizione di prodotti artistici non risulta essere una priorità, cosa significa fare l’attore?

È una cosa spettacolare. Proprio in questo contesto fare l’attore ha un senso enorme. Nei periodi di crisi c’è bisogno dell’artista perché ricopre un ruolo fondamentale a livello sociale. Si lavora molto più rispetto ai periodi in cui si sta bene. Quando c’è il contrasto, il malcontento, il dolore, entra in gioco l’artista perché nutre quella parte dell’uomo che necessita di conoscenza, di linguaggio emotivo. Quindi è fondamentale per questi motivi, ma è anche fondamentale ritrovare un modo autentico di comunicare, fare l’attore in un’epoca di questo tipo ha senso se lo si fa recuperando quello che è il senso di questo mestiere: il rapporto con il pubblico, la presenza fisica. Ecco perché poi nasce il Barbonaggio teatrale.

Come nasce l’idea del Barbonaggio teatrale?

Era qualcosa che stava dentro di me, ma non l’avevo codificata. Un’esigenza che si è tradotta nel barbonaggio e poi è diventata teoria. Dentro di me avevo un disagio che era quello del teatro e degli spettacoli come qualcosa di chiuso in un ambito: il mondo teatrale, della critica, dei festival. Come se la presenza di un pubblico, o meno, fosse quasi ininfluente.

 Il sistema teatrale è ingessato, c’è una sovrapproduzione di spettacoli, gli spettacoli non girano molto. C’è poi la visione della fruizione d’arte come un momento ludico, non si è disposti a pagare. Sono stati gli stessi teatranti a creare spettacoli che non appartengono al pubblico, ma a se stessi, o ad un pubblico specializzato.

Bisogna avere una cura e un’attenzione nei confronti del pubblico, bisogna trovare il modo per arrivare al pubblico se si vuole che il pubblico sia il proprio interlocutore. Questo non significa semplificare il prodotto artistico, si possono anche portare avanti progetti di ricerca e creare prodotti e contenuti artistici di sperimentazione che hanno ripercussioni future sul pubblico, ma l’autenticità del contatto è unica.

Tutte queste tematiche e problematiche erano dentro di me senza una codifica e forse una consapevolezza; il 17 luglio del 2008 ho debuttato al festival Castel dei Mondi, produttore dello spettacolo teatrale “Fanculopensiero Stanza 510”, ad Andria.

Ero da solo in scena, una bellissima scenografia e tanti cambi luce, ma quella sera stessa pensai che il mio sforzo era dire che tutta quella scenografia serviva, ma non raccontavo nulla. Quindi dissi al regista, al drammaturgo e al light designer che lo spettacolo non funzionava e non ero più disposto a farlo in quel modo, loro mi diedero ragione e togliemmo tutto, lasciando solo la storia e un po’ di scenografia, feci lo spettacolo ma comunque non mi convinceva. Così decisi di togliere proprio tutto e lasciare solo la storia: me, la storia e un mixer. Ma tutto questo ancora non mi bastava, avevo bisogno di pubblico, di nuovo pubblico.

L’ufficio stampa, perciò, propose di promuovere lo spettacolo per strada e lì iniziai a parlare con la gente, è iniziato uno scambio reale. Da quel momento nasce l’idea di trasformare quell’uscita in uno spettacolo, dividendolo in 11 pezzi e dando un prezzo ad ogni pezzo, recitando poi ovunque e vendendo lo spettacolo in pezzi. Iniziai a fare teatro in strada, non di strada, per convincere le persone a venire in teatro, e che il teatro è una questione ordinaria che eleva allo straordinario; che il teatro è anche una questione di prezzo, una specie di promo del teatro. Un modo per creare una relazione con il pubblico e rimettere in moto un pensiero, un meccanismo di scambio reale. Quindi inizio a girare con questo spettacolo sia in Italia, che in tutta Europa.

Tutto questo mi ha portato in Canada, a Vancouver, dove inizio a collaborare con l’Università e avvio un progetto con i nativi americani che hanno lavorato su questo meccanismo e alla fine del laboratorio hanno raccontato le proprie storie con il dispositivo del barbonaggio. Poi è diventato una specie di movimento e da allora facciamo un raduno una volta l’anno, si chiama “Artisti barboni per un giorno”, è stato candidato al premio Ubu , che è l’oscar del teatro, è diventato un  film e continua ad evolversi. Il barbonaggio è diventato una filosofia, un modo per mettere in moto una relazione tra artista e pubblico, che è l’unico modo per poter sopravvivere.

Quindi possiamo dire che il format del barbonaggio teatrale capovolge il concetto classico di fruizione di spettacolo teatrale?

Sì, più che capovolgerlo lo rimette in moto. Il meccanismo del teatro è quello, ma come rivitalizzarlo? È vero che siamo nell’epoca del digitale, ma come diceva Einstein “Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la Terza guerra mondiale, ma la quarta  sarà  combattuta coi bastoni e con le pietre”. Quindi non si può ignorare il processo di innovazione tecnologica, ma non bisogna perdere quello che è il senso più forte della comunicazione artistica che è la fisicità.

Nonostante ogni performance sia diversa dall’altra, ce n’è una che l’ha emozionata particolarmente o a cui si sente più legato emotivamente?

Sono legato ad un’esperienza che sfocia sempre in una parte spettacolare, che è la residenza teatrale “Estia racconto dei luoghi”, che fa parte di un progetto più grande che è “Ti racconto a capo” che nel 2019 compie 10 anni. Che fa parte sempre della stessa filosofia, cioè mettere in moto le persone.

La residenza mette in relazione 12 artisti e un paese di 5000 abitanti, che ogni anno collaborano su un tema e si confrontano, per poi concludere il percorso con uno spettacolo finale che è l’essenza del rito. Diventa molto più di uno spettacolo, si fa teatro ma con coscienza, sapendo ciò che si dice non esclusivamente  rappresentandolo.

Qual è il bagaglio con cui rientra alla fine di ogni tournée teatrale?

Ogni anno quando finisco un tour mi interrogo su quello che sono riuscito a dire in più in scena, considerando la scena sia il palcoscenico che la formazione. Valuto quanto sono riuscito ad andare in profondità, cercando di non essere solo uno che rappresenta, che recita. Non mi piace la parola recitare, perché è citare, è come dire due volte, è dire qualcosa ma condirla di sensi che non ha.

 Quindi la fine di ogni tournée è la ricerca delle cose che non ho detto nel mio lavoro. Io ho l’ossessione del senso, quello che faccio deve servire a qualcuno oltre che servire a me; cerco di lavorare sull’attitudine dell’essere umano. Questa cosa mi è necessaria.

Ci vuole anticipare qualcosa sui suoi progetti futuri?

Farò uno spettacolo per bambini dal titolo “Mattia e il nonno”, un racconto di Piumini con la regia di Tonio De Nitto e prodotto da FACTORY e NASCA. Un racconto che spiega come un bambino può capire che una persona cara rimane con noi tutta la vita anche quando non c’è più, nonostante la scomparsa e l’assenza. Per quanto riguarda le tournée sarò in giro con il “Misantropo”, con “La bisbetica domata” e con “CLUB 27”.

Avrò i miei laboratori di teatro sia a Lecce che a Tricase. Insegnerò all’Accademia AMA (Accademia Mediterranea dell’Attore). L’anno prossimo decorreranno, invece, i 10 anni del barbonaggio teatrale, i 10 anni della residenza,  e vorrei fare delle pubblicazioni in merito. Nel 2019 avrò, finalmente, uno spazio tutto mio e sarà il primo teatro barbone.


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