“Un drogato di merda. Un diverso. Un Corpo a perdere. Uno di quelli di cui si dice, nel gergo di certi sbirri, che abbiano il nome all’anagrafe scritto a matita. Perché cancellarlo è un attimo. E nessuno verrà a reclamare.”
Carlo Bonini, Il corpo del reato, Feltrinelli (2016)
Ha inaugurato con successo, il 30 agosto scorso, la sezione Orizzonti della 75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia per poi approdare dal 12 settembre su Netflix e nelle sale italiane distribuito da Luckyred, Sulla mia Pelle,pellicola che racconta una delle vicende più discusse dell’Italia contemporanea: il caso Cucchi.
Era il 15 ottobre 2009 quando Stefano Cucchi, un geometra romano di 31 anni, veniva fermato e perquisito dai carabinieri per poi essere portato alla Stazione dei Carabinieri con l’accusa di spaccio e detenzione (12 confezioni di hashish per un totale di 21 grammi e 3 confezioni di cocaina).
Il giorno successivo Stefano viene processato con rito direttissimo.
“Sì, mi dichiaro innocente per l’accusa di spaccio, colpevole per quella di detenzione”.
È abbastanza provato, ha difficoltà a camminare e a parlare. I suoi occhi mostrano degli evidenti ematomi ma nessuno li vede. Nessuno li vuol vedere.
Il processo si conclude con la custodia cautelare presso il carcere romano di Regina Coeli in attesa dell’udienza fissata al mese successivo.
Come in una moderna passione di Cristo inizia da qui l’agonia, la sofferenza, il calvario del giovane romano. Le sue condizioni peggiorano ulteriormente al punto da essere trasferito dal carcere all’Ospedale Fatebenefratelli dove gli vengono refertate lesioni ed ecchimosi a gambe e viso, una frattura della mascella, un’emorragia alla vescica e al torace e due fratture alle vertebre.
Cucchi è sempre più solo ed isolato, rassegnato quietamente alla sua sorte. Non darà il consenso per il ricovero.
Dall’altra parte della città c’è la sua famiglia che vorrebbe vederlo e conoscere le sue condizioni di salute. Hanno fiducia nella Giustizia. “Queste sono le regole”.
Non lo vedranno più.
Stefano muore il 22 ottobre e la famiglia apprenderà della sua morte soltanto all’atto di notifica dei carabinieri per autorizzare l’autopsia.
Alessio Cremonini giunto al suo secondo film da regista (dopo Border ndr) ha deciso di utilizzare questo arco narrativo per raccontare la vicenda di Stefano, interpretato da un magistrale Alessandro Borghi.
Non fa sconti a nessuno e ci mostra in 140 minuti di film la dura realtà delle storie di questo tipo, non limitata purtroppo a quella di Stefano.
Nella discesa agli Inferi dentro le stanze e i corridoi di un carcere-ospedale, ci mostra la fragilità e il dolore del protagonista, il rimorso per aver fatto soffrire nuovamente i suoi genitori, i suoi comportamenti al limite dell’autolesionismo che lo portano per rabbia o per paura a celare le colpe dei suoi aguzzini, a non collaborare spesso con i medici.
La tenerezza quando chiede alle “guardie” se può avere un pezzo di cioccolata.
Ci risparmia la scena del pestaggio, ma la violenza è visibile nelle sue sfumature in tutta l’opera cinematografica.
È nella burocrazia che ha ostacolato la famiglia. Si fa largo tra l’indifferenza di quelle 140 persone (giudici, carabinieri, medici, avvocati, volontari) che sono state a contatto con Stefano in quella settimana infernale e che hanno preferito girarsi dall’altra parte.
È nella voce della nostra coscienza che ci chiede cosa avremmo fatto al loro posto.
È in quel “Perché, non si vede che mi hanno menato?” un mantra senza fine che ci perseguita.
Un film coraggioso, potente e profondo. Un atto di verità per scuotere le coscienze al dialogo e alla riflessione sul senso di giustizia e al rispetto dell’essere umano.
Un’esigenza per ricordare non solo Stefano ma tutte quelle persone morte in carcere per circostanze misteriose e inghiottite da un inesorabile crepuscolo.
E’ urlare insieme a Stefano tutte quelle verità che molto spesso vengono taciute. E’ una battaglia per restituire dignità a tutte quelle persone morte da ultimi.
Non è facile vedere Sulla mia pelle ma dobbiamo farlo. Ti lascia dentro tanta rabbia, tristezza e occhi lucidi.
La storia di Stefano ci appartiene perché li su quella lastra di marmo potevamo esserci noi o i nostri cari. Il dolore di Stefano merita di essere ascoltato. E’ anche il nostro dolore.
La sua storia è ora la nostra storia entrata nella pelle.
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