ATTUALITÀ

IL CONCETTO DI INTERCULTURALITÀ. INTERVISTA A MOHAMED BA

Nato in Senegal, Mohamed Ba vive e lavora in Italia da più di 20 anni. Portatore di valori, culture e tradizioni, cerca di costruire un ponte che colleghi il meglio di quello che determina il suo essere africano prima, senegalese poi, con il meglio che il territorio ospitante possa offrire.

Attraverso il suo lavoro di formatore, educatore, attore e drammaturgo teatrale, cerca di dare il suo contributo per una rifondazione della nostra forma mentis, mettendo l’uomo al centro e, sicuramente, contribuendo al processo di rivoluzione delle coscienze.

Un artista a tutto tondo, quindi, che dal teatro, al cinema, passando per i libri e la musica, porta alto e cerca di diffondere il concetto di interculturalità.

Andiamo a conoscerlo tramite le sue stesse parole.

Buongiorno Mohamed, grazie per aver accettato di rilasciare un’intervista a Metis Magazine. Ci racconti la sua storia, chi è Mohamed Ba?

Il problema è di non saperlo io stesso chi sia Mohamed Ba. Quando una vita è così sparpagliata, disseminata, di percorsi, di scelte positive e negative, di incontri e di scontri, alla fine l’identità muta a tal punto che sei la somma di tutte le esperienze messe insieme. E per questo amo definirmi un senegaliano, perché non sono più solo il senegalese partito da Dakar per andare ad esplorare il mondo, ma non sono nemmeno un cittadino italiano e quindi sono diventato un ponte, in un certo senso.

Un ponte tra le due culture?

Non un ponte fra le due culture, poiché chiunque incontri è portatore di valore e di cultura, ma non necessariamente devono corrispondere a quella africana o a quella italiana; anche la cultura araba ha inciso molto sulla mia crescita perché nasco in una famiglia di religione islamica, il mio nome è già ricco di significato perché è Maometto. Sono andato ad approfondire gli aspetti fondanti del credo mussulmano per farli miei e poterli rappresentare nel concerto dei mondi facendo il mio spartito, non in chiave scontrosa con gli altri, ma cercando di prendere anche da quello che gli altri mi offrono, cercando di affermare maggiormente la mia consapevolezza circa il legame forte tra me e l’altissimo, che si chiami Gesù, Allah, Yahweh. Per me non cambia tanto perché le definizioni le lascio agli altri, io aspetto solo una certa parametrazione.

In passato è stato vittima di un increscioso episodio di razzismo: è stato accoltellato all’addome alla fermata del tram. Ha successivamente scritto una lettera aperta al suo aggressore. Secondo lei, quali sono le motivazioni che spingono un uomo a compiere un gesto simile verso un altro uomo?

L’uomo porta già dentro di sé il seme della violenza, ma anche il seme della pace.

Qual è la differenza tra l’uomo e l’animale: il buon senso, la logica, la corresponsabilizzazione, l’etica, l’integrità. La consapevolezza di appartenere tutti ad una stessa semente divina, e quindi le differenze devono essere considerate come fonti di arricchimento.

E purtroppo, non dico per il clima che si respira oggi ma da sempre, i popoli hanno disimparato ad incontrarsi, hanno fatto le scelte più semplici e più facili: scontrarsi. Con lo scontro non c’è più valenza culturale, intellettuale ed esistenziale che ci guida, ma nello scontro è la forza che governa. Chi è più forte deve domare gli altri, quindi obbligandoli anche a rinunciare a quello che determina il proprio essere, la colonizzazione è uno, l’evangelizzazione ne è un altro, come l’islamizzazione, lo schiavismo, il razzismo.

L’uomo è un animale sociale che ha bisogno di riconoscersi negli altri, ma con empatia perché l’essere umano non è mai un concetto compiuto ma è una sequenza di eventi coniugativi tra una storia in evoluzione e un’alterità selettiva. È quello che va un po’ a ribaltare il paradigma antropocentrico che vede l’uomo capace di realizzare se stesso ogni giorno confrontandosi con l’alterità culturale, sociale, politica, materiale, meccanica e religiosa. Però bisogna essere capaci di ascoltare l’altro, creare un muro tra me e l’altro mi impedisce di vederlo, allora tutto il mio malessere si identifica in lui. La causa di tutti i mali di questo mondo sono legati alla presenza dell’altro vicino a me. Tutte le dittature si sono insediate nel mondo seguendo questo ragionamento: prima noi e poi gli altri. Vorrei che si imparasse di nuovo a pensare a noi, perché l’egocentrismo non controllato porta all’etnocentrismo, allo sfasciare tutto un tessuto sociale che dovrebbe garantire maggior coesione. Ecco perché abbiamo disimparato ad investire per un benessere comunitario, chiunque di noi pensa solo all’io, ma da un diverso a un altro ci dimentichiamo che ognuno di noi è straniero a se stesso.

Quello che si è non è motivo di orgoglio o di vergogna, è legato alla fatalità del caso, ma quello che si diventa lo è; chi si pone un obiettivo da raggiungere e si dà da fare per raggiungere tale scopo non dovrebbe essere niente affatto impermeabile a contaminazioni, non c’è una cultura esclusiva. Chi oggi odia l’altro è perché crede di avere una cultura esclusiva, tale da poter fare a meno degli altri.

Penso che anche colui che ha pensato che io sia un po’ l’emblema del male in questa italica terra, tale da meritare di morire, non è malvagio; l’ha fatto perché ha una concezione di sé e di me totalmente errata e io ho voluto dargli una possibilità, non ho voluto puntargli il dito, ma allungargli una mano. Siamo tutti capaci di prendere un coltello e aggredire gli altri, ma per sedersi al tavolo c’è bisogno di una forza morale e intellettuale, ci vuole una riflessione profonda sui temi esistenziali e argomenti da portare a quel tavolo. Se non hai quegli argomenti ti allontani dalla forza della ragione, per fare leva sulla ragione della forza.

Che ruolo ha il perdono nel processo di accettazione di un gesto così immotivatamente violento?

Non parlerei di perdono, parlerei piuttosto della ricerca di un’alternativa costruttiva. È chiaro che un’aggressione fa sempre male perché non meritata e non cercata. Un’aggressione fa sempre male quando tu cerchi di costruire delle vie percorribili che permettano alle persone di ritrovarsi attorno a ciò che li unisci e subire quel gesto fa male, ma io ho sempre paura di aver paura.

 Aver paura significherebbe smettere di esistere, di lavorare, significherebbe impedire a me stesso di contemplare il bello che c’è in ogni essere umano. Significherebbe, semplicemente, trasformarmi in bestia. La mia maturità mi fa comprendere quali confini non superare quando condivido uno spazio con tanti altri, che sia fisico, mentale, filosofico o di pensiero. Purtroppo la nostra più grande empatia è cresciuta in proporzione diretta con il danno entropico che abbiamo apportato al mondo. Abbiamo imparato a voler disintegrare il bello che c’è nell’altro e nel mio lavoro cerco di spingere le persone ad andare oltre le apparenze fisiche, umorali, i tratti somatici, ma andare a guardare le persone da dentro.

Vuole illustrare ai lettori di Metis Magazine il ruolo di intercultura?

L’interculturalità non è nient’altro che la ricerca del confine inesistente, ma che è da creare quando soggetti apparentemente inconciliabili si ritrovano a dividere uno spazio. Allora quello spazio non diventa casa mia, così come non è casa tua, prenderò lo spazio della strada che passa davanti casa mia e anche tu prenderai la strada che passa davanti casa tua e ci incontreremo all’incrocio tra quelle due strade, e lì possiamo piantare una nostra tenda e bere il caffè, quella è l’interculturalità.

Quello che ci lega, in realtà, è il patto cittadino che passa attraverso ognuno di noi e attraverso il rispetto dei dettami della Costituzione e delle normative vigenti, quando saremo sotto quella tenda ciò che ci unisce sarà il patto cittadino.

C’è una parola tanto vituperata in Italia “integrazione”, gli esseri umani non si integrano, gli esseri umani interagiscono. Sono gli elementi che si integrano, gli esseri umani devono essere nelle condizioni di imparare dagli altri ad aggiungere a quello che già sono e hanno dentro di loro. L’inclusione non è costringere l’altro a sposare il mio punto di vista, una cosa è certa dimmi chi escludi e ti dirò chi sei.

Sono sempre più frequenti le iniziative volte alla sensibilizzazione del cosiddetto “fenomeno migranti”, ma secondo lei quanto sono utili questi momenti di incontro se non sono supportati da delle concrete azioni politiche?

Noi siamo come in una scuola, e in una scuola deve esserci il triangolo educativo: c’è la famiglia che educa, la scuola che istruisce e l’amministrazione che sostiene. Ma quando la scuola, oltre che ad istruire, si deve occupare anche di educare rischia di trasformarsi in un covo di assistenti sociali ed è esattamente quello che sta succedendo in Italia. La politica ha smesso di fare la sua parte, la famiglia cioè il serbatoio culturale che avrebbe dovuto formare la nostra mente, non riempie quello spazio e lascia una libera interpretazione dei fatti, anche storici, ai singoli cittadini, poi con l’avvento dei social media vale tutto e il contrario di tutto.

Una politica degna di questo nome deve essere anche lungimirante, riuscire ad inserire gradualmente anche soggetti provenienti da terre lontane e metterli nelle condizioni, vivendo qua, di fai vedere anche cosa sono capaci di fare e trovarsi nelle condizioni di considerare questo paese come il proprio paese ed essere pronti anche a morire per difenderne i concetti fondanti.

Tutto il resto è solo una narrazione inventata ad hoc magari per creare consenso politico.

Ma la verità è sotto gli occhi di tutti, come si fa a considerare un bambino nato qui, che non ha mai visto con i propri occhi il paese di origine dei genitori, non ne parla la lingua, ne ignora persino le tradizioni culinarie, perché tutta la sua vita è qua, come si fa a non considerarlo italiano? Perché i figli devono pagare le colpe dei padri, se colpe ce ne sono. È come se essere migrante fosse una colpa.  È una sfida culturale e solo con lo strumento della cultura riusciremo a superarla. Il teatro in questo senso gioca un ruolo fondamentale perché va a riempire lo spazio vuoto lasciato dalla politica, ma di contenuti. Dobbiamo cambiare la nostra prospettiva, dobbiamo imparare a pensare diversamente perché solo con la forza del pensiero si va alla ricerca di una via percorribile e che va alla ricerca di un percorso comune.

Dal punto di vista professionale è impegnato su più fronti e a breve partirà la sua tournée teatrale, con Erasmus Theatre, con lo spettacolo “Invisibili”: un viaggio tra passato e presente per capire ed agire, un appello a distruggere il conformismo cinico che caratterizza quest’epoca. Ci vuole parlare di questo progetto?

“Invisibili” è un percorso nelle memorie perché, purtroppo, anche sotto questo aspetto mi rendo conto che noi provenienti dall’Africa subsahariana siamo un po’ un punto interrogativo. Nell’immaginario collettivo è come se non ci fosse mai stata un’organizzazione sociale, culturale, religiosa, è come se non ci fossero mai stati esempi virtuosi, è come se non ci fosse mai stato un dolore così profondamente vissuto dalle popolazioni e mi riferisco alla schiavitù, è come se non avessimo mai subito nulla. Abbiamo avuto un percorso molto travagliato, perché tutte le pagine che una mente malata possa partorire sono state scritte su questa pelle nera, le abbiamo subite tutte: islamizzazione, evangelizzazione, colonizzazione, schiavismo. Ma chi ce ne parla? Io da 20 anni vivo in Italia, la giornata della memoria l’ho sempre celebrata, ma mi rendo conto che spesso ci si focalizza soltanto sulla shoah. Allora ho smesso di parlare della memoria, ma delle memorie.

“Invisibili”, quindi, è un percorso attraverso le memorie condivise che partono dalla schiavitù, alla shoah, ad arrivare al dramma dei migranti di oggi. Ma non fatto in chiave accusatrice, perché trattando argomenti così complessi anche con l’ironia si dà la possibilità, a chi ascolta, di sentirsi chiamato in causa perché ci riguarda tutti.

Quindi “Invisibili” non è un percorso che si limita a puntare il dito, io sono per il superamento degli errori del passato e all’impegno nella quotidianità, per impedire che gli errori del passato si ripetano. L’invito è dire agli altri cosa guardate voi quando mi vedete, oppure cosa vedo quando vi guardo; allora uno sguardo incrociato attraverso il cambio di prospettiva diventa bello perché il migrante andrà a conoscere l’invito ad essere ascoltato. È un percorso tra passato e presente nelle scarpe di chi lascia tutto alle sue spalle, ma non dimentica nulla.

Oltre che sul fronte teatrale è coinvolto in molti altri workshop tenuti in istituti scolastici, cosa dà e cosa riceve dai ragazzi coinvolti nei suoi laboratori?

Faccio un po’ di tutto perché credo che il fenomeno migratorio riguardi un po’ tutti, i giovani, i bambini, gli anziani. Ma non tutti sono nelle condizioni di andare al teatro, allora ho pensato che andando io da loro si potesse affrontare queste tematiche usando il loro linguaggio, in modo tale che la riflessione sia condivisa e molto più interattiva.

A volte nasce anche il desiderio da parte di chi segue i laboratori di cimentarsi nella parte dell’attore, del cantante, del musicista o del musicante e si fa un laboratorio in cui si insegna gli strumenti base per la recitazione, l’uso della voce, il timbro, l’analisi di un testo e la tenuta di un palco. Condividere con loro l’esperienza di vita, da dove viene l’ispirazione, come si fa fotografando un paese, una città, una nazione un fatto, a tirarne fuori uno spettacolo che ne parli.

Oppure faccio incontri diretti, a larga scala, e si affrontano le tematiche legate alla geopolitica, all’immigrazione, alla decolonizzazione in Africa, attraverso una narrazione e una narrativa tesa a riempire quel vuoto lasciato dalla cultura per una migliore comprensione della storia, perché i libri che ne parlano sono stati scritti da chi ci ha colonizzati e quindi la prospettiva è sempre la stessa.

Nei suoi libri tratta da diversi punti di vista il tema delle tradizioni, come si può coniugare il bisogno di rimanere fedeli ad esse e contemporaneamente avere uno sguardo al progresso?

Non necessariamente perché lo scrittore è anche un emissario, lo scrittore vive in una dimensione totalmente diversa rispetto alla terra che calpesta tutti i giorni e allora nel suo immaginario le cose possono migliorare, e noi inventiamo qualcosa di sospeso che non esiste ancora ma che dovrebbe e potrebbe esistere. Magari accennarlo attraverso la scrittura potrebbe smuovere, in chi ci legge, qualcosa che alimenta il sogno. Il sogno che, piano piano, condiviso inizia a diventare realtà. Ecco, noi siamo dei sognatori. Perché vorremmo rimanere puri esteti, colpiti dal bello, ubriacarsi di bello, vivere la tensione interiore che si prova quando ci si ritrova davanti al bello. Questo per me è il senso più onorevole che si possa dare all’esistenza, all’essere parte di qualcosa.

Non bisogna essere ostaggi delle tradizioni, le tradizioni ci raccontano da dove veniamo, dobbiamo riuscire ad analizzarle e a capirle, perché senza tradizioni siamo senza passato, e chi è senza passato non può capire il presente e non potrà nemmeno pretendere un futuro, ecco perché è fondamentale che ci siano.


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