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QUANDO LA CASA CONIUGALE È DI PROPRIETÀ DEI NONNI. TUTELA DELLA PROPRIETÀ VS TUTELA DELLA PROLE

La fatidica frase “l’uomo non separi, ciò che Dio ha unito”, al giorno d’oggi, ha un suono un tantino anacronistico.

Il concetto di famiglia felice ha ceduto il passo ad un prototipo decisamente più nevrotico e meno dedito a quel sano spirito di sopportazione e collaborazione che era tipico della progettualità del “finché morte non ci separi“.

Sicché, è da tempo venuta meno la propensione a conciliare le contrapposte esigenze di mamma e papà che, giunti al capolinea del loro nobile sentimento, scatenano la battaglia giudiziaria che li porterà a contendersi patrimonio, alimenti, figli e focolaio domestico.

Così la casa coniugale, luogo deputato alla costituzione ed alla crescita della famiglia, finisce sul tavolo della contrattazione e, inevitabilmente, sul campo della battaglia legale.

La regola vuole che l’assegnazione della casa coniugale segua la prole, specie se minore d’età o in ogni caso, anche se maggiorenne, ma non ancora autosufficiente.

Quello che si intende tutelare è il diritto dei figli a mantenere integro il punto di riferimento che aveva individuato nella casa familiare, in quella e proprio in quella, il luogo in cui doveva svolgersi la vita della formazione sociale chiamata famiglia.

Tanto a maggior ragione in un periodo già di per sé segnato dallo scompenso emotivo legato allo sgretolamento del nucleo familiare.

Tale principio, che consacra il criterio privilegiato cui deve ispirarsi l’organo giudicante nel decidere a chi assegnare la casa coniugale in ipotesi di separazione e divorzio, è stato introdotto in virtù della legge n. 54 del 2006 (norme sull’affido condiviso). In particolare è previsto all’art. 155 quater del codice civile che, di contro, però, non individua alcun criterio secondario in ordine all’assegnazione della stessa casa coniugale nei casi di assenza di prole, lasciando così – in tali ipotesi – ampia discrezionalità ai giudici di merito investiti della relativa decisione.

Ma cosa accade quando la casa coniugale non è di proprietà dei coniugi, ma è stata ceduta loro in uso dai nonni (dunque dai genitori di uno dei coniugi) perché ne disponessero e la utilizzassero per le esigenze della nuova famiglia e perché ivi crescessero i tanto attesi nipotini?

Ebbene, la giurisprudenza sul punto si è cristallizzata e si è univocamente orientata nel senso di ritenere equo lasciare proprio ai nipoti la casa messa a suo tempo a disposizione di uno dei coniugi, anche ove costui sia di fatto quello che dalla casa stessa è costretto ad andar via.

La ratio di tale orientamento giurisprudenziale poggia sul rilievo che se i nonni hanno deciso di mettere un immobile di loro proprietà a disposizione del proprio figlio, del coniuge di questi e naturalmente dei nipoti nati dall’unione, affinché in quell’immobile tutti questi soggetti potessero svolgere la loro comune vita familiare, è allora evidente che potranno richiederne la restituzione solo quando di quell’immobile cesserà la naturale funzione. E tanto si verificherà solo al raggiungimento dell’indipendenza economica dei nipoti e sempre che la restituzione non sia assolutamente indispensabile per le esigenze primarie di vita dei legittimi proprietari del bene (quindi solo se essi debbano abitarvici e non abbiano dove altro andare).

Ma come rimediare a questo apparentemente irreparabile pregiudizio per il proprio diritto di proprietà, clamorosamente soccombente rispetto alle esigenze di tutela della prole nata dal matrimonio o dall’unione sentimentale (sia pur di altri)?

L’ipotetica risoluzione del problema nasce pensando proprio alla tipologia di rapporto giuridico che si instaura quando i nonni decidono di concedere la possibilità al proprio figlio o alla propria figlia di vivere in un immobile di proprietà dei primi finalizzando tale concessione a consentire al figlio stesso di insediare in quella casa la propria vita familiare.

Il rapporto che in tali casi si instaura è un rapporto di comodato o prestito d’uso, il contratto mediante il quale una parte consegna ad un’altra un bene (nel caso specifico un immobile) affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato con l’obbligo di restituire la medesima cosa ricevuta.

Posto che la separazione personale dei coniugi immobilizza i beni, specie se vi sono figli minori o non autosufficienti, è chiaro che l’unica possibilità che si intravede è quella di stipulare con il proprio figlio un contratto di comodato d’uso gratuito specificando nello stesso tre cose: la sua durata massima, il termine entro il quale il bene dovrà essere riconsegnato e lo scopo (o meglio la funzione) del contratto medesimo.

In caso contrario, ove il contratto di comodato d’uso non preveda termine e scopo, il coniuge presso cui, all’esito della separazione, sarà collocata la prole, subentrerà di diritto nel contratto in essere tra l’altro coniuge ed i propri genitori e rimarrà nella casa familiare (di chiunque essa sia) con i figli nati dal matrimonio o dall’unione amorosa giunta al tracollo, fino a che cessi l’esigenza di questi.

Tutela della prole contro tutela della proprietà: uno a zero, dunque, ma con l’asterisco!

Riferimenti normativi: legge n. 54/2006, art. 155 quater c.c., art. 1803 c.c., art. 1809 c.c., art. 6 legge n. 392/1978, sentenze Cassazione Civile n. 3072/2006, Cassazione Civile n. 4917/2011, Cassazione Civile n. 23978/2015

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