La storia della sindrome di LavandonIa è davvero suggestiva e a tratti terrificante. Ci fa capire come anche un simpatico e innocente videogame possa essere ricollegato ad avvenimenti molto tragici. Ma, partiamo dal principio…
Pokémon, uno dei brand più riconosciuti e amati tra le esclusive Nintendo, è sicuramente tra i giochi più apprezzati dalla più ampia fascia di giocatori possibili ed immaginabili: simpatiche creature catturabili ed addestrabili in un gioco strategico dallo scenario competitivo matematico e complesso hanno sicuramente fan dalla più tenera età fino a superare la scomoda soglia dei trent’anni.
Proprio i giocatori appartenenti a quest’ultima fascia saranno tra i più presi dalla nostalgia nel ritorno nella regione di Kanto con Pokémon Let’s Go Pikachù e Eevee (anche se magari i giochi non sono esattamente quello che aspettavano su Switch), cresciuti con le prime avventure di Ash e pronti ad impersonare l’allenatore che ormai ha guadagnato il nome di Rosso nella difficilissima scelta tra Bulbasaur, Squirtle e Charmender.
Tra fantastiche avventure, capipalestra da sconfiggere per guadagnare medaglie, gradoni facili da saltare ma troppo alti per essere scalati, ci siamo tutti infine trovati in quella spettrale e inquietante città che è Lavandonia. Proprio qui, dopo tante battaglie e dopo esserci presi cura dei nostri piccoli pokémon, il gioco ci mette a confronto con un tema difficile da digerire, soprattutto in tenera età: la morte.
Tutto il piccolo arco narrativo che si svolge in questa grigia città, arco che coinvolge anche il malvagio Team Rocket nella sua incarnazione più sadica, ruota attorno al grande cimitero dei pokémon, la torre di Lavandonia, e agli spiriti di questi teneri animaletti morti che non riescono a trovare pace su questa terra il cui culmine (spoiler alert per chi non sapesse di cosa stiamo parlando) è terribile storia di sacrificio che spiega il perché del teschio e dell’osso in possesso dei piccoli Cubone
A sottolineare l’angoscia di questo terribile arco narrativo ci pensa una splendida colonna sonora, soprattutto per le possibilità dell’epoca e per quanto potesse offrire il nostro Game Boy: una musica disturbante, abilmente composta e riproposta in un ciclo di note gracchianti e acuti terribili.
Proprio in questa angosciosa musica di sottofondo sarebbero stati nascosti dei suoni così acuti da essere percettibili solo alle orecchie dei giocatori più giovani, almeno nei primi due titoli dedicati alla serie: Pokémon Rosso e Pokémon Verde. Questi piccoli impercettibili picchi, nascosti in una già apprensiva traccia, avrebbero causato nel tempo dei disturbi della personalità a tutti i giocatori che, nel Giappone dell’epoca, avrebbero vissuto le avventure nei panni di Rosso in quella spaventosa città cimitero.
Per quanto spaventoso possa già suonare questa storia, la situazione dell’epoca si spostò velocemente da un possibile “errore” innocente ad una vera e propria situazione critica: prima colpiti da depressione e da diversi atti di autolesionismo, i giovani giocatori che sognavano di diventare Pokémon Masters finirono le loro avventure molto prima di quanto avessero mai potuto sognare, portando i dati dei suicidi giovanili del Giappone a vedere una improvvisa impennata.
Assalita dai genitori distrutti dal dolore e in cerca di un capro espiatorio, Nintendo si vide costretta a ritirare dal mercato e distruggere tutte le copie di Pokémon Rosso e Pokémon Verde e, tempo dopo, rilasciare una versione riveduta e corretta delle avventure di Rosso in quello che divenne Pokémon Blu. La differenza più evidente? Una soundtrack molto più “allegra” e approfonditamente controllata da esperti del settore.
Se vi state chiedendo con che coraggio una compagnia come Nintendo avrebbe potuto rimettere in commercio un gioco come Pokémon dopo quanto successo con la “Sindrome di Lavandonia”, significa che ovviamente non siete a conoscenza del fatto che l’intera faccenda non è altro che una inquietante CreepyPasta.
Non sono mai esistiti suoni nella colonna sonora destinati solo ai bambini più giovani, non si è mai verificato un picco dei suicidi giovanili del Giappone legato al brand Pokémon e Nintendo non è mai stata presa d’assalto da genitori infuriati dopo inspiegabili crisi subite dai loro bambini (… se non contiamo l’episodi di Porygon). L’intera leggenda della Sindrome di Lavandonia non è altro che una fanfiction scritta dagli stessi allenatori di un tempo, suggestionati a tal punto dalla trama più inquietante e esplicita dell’intera saga da voler rendere l’arrivo nella città degli spiriti memorabile per chiunque, anche chi non ha mai avuto l’occasione di giocare i primi indimenticabili titoli a marchio Game Freak.
Non so voi, ma anche non sapendo della Sindrome di Lavandonia, anche non realizzando appieno cosa volesse significare aggirarsi in un labirinto composto da lapidi e da allenatori in lacrime, l’inqueitudine che Lavandonia era in grado di trasmettere in contrasto con il resto del gioco era tale da farci giocare abbassando il volume dell’audio al minimo. E di certo preferivo non sapere dove Cubone avesse preso le sue ossa e il suo teschio!
Alessandro d’Amito
Copyright immagine di copertina @Redneckslasherstudio
Categorie:MetisMagazine