ATTUALITÀ

VIDEOGIOCHI, VIOLENZA E MEDIA: UNA COMBINAZIONE LETALE

Ogni volta che un giovane commette una strage il dito accusatore dell’opinione pubblica viene puntato sulla malsana, diabolica, passione dell’omicida per i videogiochi. Di recente un caso di cronaca in Crimea ha avuto il suo giusto inquadramento dalla stampa, anche nostrana, all’interno della dipendenza da videogiochi dell’assassino. Per la cronaca, si parlava di Minecraft, un gioco che consente di creare mondi in pixel. 

Come mai questa sintomatica associazione? Perchè i videogiochi sono subito la prima causa di questa violenza? Tendenzialmente per ignoranza e pregiudizio. Sarebbe fin troppo facile lanciarsi in una disamina delle debolezza di questa teoria, che è stata affrontata in modo decisamente più autorevole da esperti come Emilio Cozzi sulle pagine di Wired.

Quello che continua a stupir è la facilità con cui la stampa, palesemente non informata e (in)competente su molti aspetti di questo argomento, continui a cercare la radice del male nel colpevole più comodo, ossia, in questo caso, i videogiochi.

Non facciamo gli ipocriti, esistono giochi che sono una vera e propria istigazione alla violenza. Titoli come Postal o Hatred sono nati palesemente per attrarre il lato più violento e morboso del giocatore, ma non si può considerare questi prodotti come l’unico esempio di videogiochi da sventolare in occasione di stragi. 

Pur trattando di violenza, ad esempio, l’italianissimo Riot è un esempio di come si possa rendere il videogioco un elemento didattico, capace di analizzare eventi di una certa rilevanza in modo da trasmettere un contenuto critico al giocatore. Ma perché dare una valenza positiva al videogioco, quando è più facile demonizzarlo?

Perché, dire che esistono ambiti videoludici pensati per integrare portatori di handicap, non ha lo stesso appeal per il lettori del veder demonizzato il mondo in pixel, causa del malessere dei nostri giovani.

A tal proposito, mi viene in mente quando mia madre mi gridava contro quando, adolescente, trascorrevo troppo tempo con i videogiochi. Oppure, le volte in cui sparivano, misteriosamente, i cavi di alimentazione di PC e Console. Ritorsione educativa che all’epoca detestavo ma che oggi, col senno di poi, mi aiuta a comprendere come certi discorsi sui videogiochi nascondano un’altra realtà: dove sono le famiglie?

Facile demonizzare l’influenza negativa dei videogiochi sui ragazzi (generalizzando, come se Super Mario potesse dare vita al nuovo Ed Gain), ma perché nessuno si chiede dove fossero le famiglie di questi omicidi? Spulcio gli articoli che come la peggore inquisizione accusano i pixel violenti di aver creato il mostro, ma non trovo un solo accenno alle famiglie che non hanno vigilato su questa progressiva caduta morale del tenero ragazzo in un folle assassino. 

Come mai? Perché andare ad indagare a fondo il fenomeno non interessa. Più semplicemente, chi si occupa di questi casi spesso è vittima dello stesso pregiudizio di chi legge, non ha competenza in materia e non conosce il contesto ludico che accusa. Il lettore non vuole l’analisi del fenomeno, vuole il gore, cerca la morbosità della violenza ed il giornalista, ormai più venditore che critico sociale, lo accontenta. E tanti saluti alla media diligenza professionale, all’analisi dei fatti e la verifica della fonte. 

Il videogioco è visto come il cattivo? Bene, rendiamolo il perfetto capro espiatorio di una società che silenziosamente e passivamente ha accettato di creare degli abissi nei rapporti umani, lasciando che dei pixles ne riempissero i vuoti. Salvo poi, identificare gli stessi come la fonte del male, mentre basterebbe essere più coerenti e onesti e analizzare i problemi da ogni lato. 

La stampa generalista, oramai una pallida imitazione di giornalismo concreto, preferisce giocare sul sicuro, dando al lettore ciò che lui vuole: conferme. E quindi, non ha senso dimostrare come l’identificazione videogioco-violenza-massacro sia puramente fittizia, priva di fondamenti scientifici. Meglio andare sul sicuro e puntare nuovamente il dito su questo nemico che si annida su PC e console. Il fatto che siano gli stessi genitori a donarli ai figli, spesso come sostituti della figura genitoriale, è un dettaglio che passa in sordina, volutamente. 

Eppure, in mezzo a questa ipocrisia, ci sono ancora testate che cercano di spiegare il fenomeno dei videogiochi con una certa professionalità, riconducendoli alla loro natura concreta, fatta sicuramente di difetti, ma anche di numerosi pregi. Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di esport e di un loro ingresso nel contesto olimpionico, scuderie di Formula 1 vedono nella simulazione ludica una notevole risorse per preparare  i propri atleti .

Giovani giornalisti e divulgatori stanno cercando di formare, con articoli e approfondimenti, una nuova generazione di lettori, dando loro i giusti strumenti per comprendere una parte essenziale della vita sociale ancora troppo sminuita e ridicolizzata, buona solo come derisione o vittima del nostro scarico di colpe. Ma questo sforzo è frenato da una mentalità stantia e granitica che non apre al cambiamento, che non vuole confrontarsi con una visione differente ma si arrocca sulle proprie posizioni. 

Alla prossima occasione di una strage giovanile, prepariamoci nuovamente alle solite, stantie critiche sulle nostre passioni, consapevoli che tanto certa gente non sarà mai pronta ad un dialogo e ad un confronto onesto. Però, se possibile, se un appassionato di Tetris compisse una strage, poniamoci qualche domanda in più, prima di accusare i mattoncini colorati di essere fomentatori di violenza, che ne dite?

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