Fin dove può spingersi lecitamente un governo per garantire la sicurezza dei propri cittadini?
La domanda, per quanto semplice, è forse una delle più complicate a cui dare una risposta, soprattutto al giorno d’oggi. La sensazione di paura latente che eventi come quelli legati al terrorismo hanno generato nella popolazione, si è tramutata nell’ingerenza nei governi all’interno della vita dei privati cittadini, andando a toccare la versione digitale della nostra quotidianità.
La risposta alla domanda iniziale è: ovunque. Almeno secondo il governo australiano, che ha deciso di imporre la propria presenza all’interno della rete in modo decisamente invasivo. Con il recentemente approvato Assistant and Access Act, è stata infatti approvata la possibilità del governo di imporre a colossi come Facebook, Apple e simili la cessione di banche dati di proprietà alle autorità preposte, anche in assenza di appositi mandati da parte di un magistrato. Inoltre, qualora i dati in questioni siano crittografati, saranno obbligati a fornire la corretta chiave di decrittazione.
Ad essere particolarmente preoccupante è la richiesta di inserire delle backdoor dedicati alle autorità, in modo che queste possano controllare le attività di cittadini a propria discrezione, così come già avviene per il traffico telefonico. Quindi, ora, in Australia nessun tecnico può rifiutarsi di creare questi accessi privilegiati alle autorità.
E non si tratta solo dell’Australia, che ha reso pubblico questo procedimenti. Nel Regno Unito questa è già prassi per l’agenzia GCHQ, che effettua questi controlli normalmente, solo che, protetta dal segreto di stato, non viene additata come il nuovo Grande Fratello.
La questione delle backdoor è un precedente che andrebbe analizzato con una certa attenzione, visto che la presenza di questi ingressi privilegiati non deve essere obbligatoriamente comunicato all’utente finale, ovvero il cittadino. Azienda e Stato sono uniti da questo piccolo segreto, una finestra nascosta con cui, autorità preposte, possono spiare e controllare ogni nostra attività.
Ovviamente nell’era della condivisione sfrenata di post e foto, questo nuovo paradigma del controllo non dovrebbe scandalizzare. In fin dei conti, siamo ormai schiavi dell’esigenza a condividere ogni nostro istante con personaggi che non hanno, apparentemente, più interesse nel mantenere un distacco tra privato e pubblico. Ma, per quanto criticabile, si tratta di una scelta personale, una libera decisione di offrire all’occhio morboso dei curiosi la propria esistenza.
Ben diverso è quando un governo impone a un’azienda di diventare potenzialmente il proprio 007. Il rispetto della privacy, in un periodo in cui si parla anche di GDPR, dovrebbe esser un punto fermo in una società civile. Deve esistere una zona riservata in cui nemmeno lo Stato, salvo emergenze e casi limite, può entrare. Comprensibile il voler agire tempestivamente per scongiurare eventi catastrofici, ma davvero l’unica soluzione è tradire la fiducia dei propri cittadini, spiandoli da un buco della serratura digitale?
Personalmente, l’idea che un mio messaggio di WhatsApp non arrivi solo al destinatario, ma anche a un qualcuno che monitora ogni mia azione, è inquietante. Non tanto perché si possa temere una qualche ripercussione, ma proprio per l’idea che una conversazione privata debba rimanere tale. L’ingerenza di un agente di polizia, ad esempio, motivata dal fatto che semplicemente può farlo in nome di una tutela preventiva e potenzialmente inutile, è una sorta di incubo orwelliano in cui lo Stato non è più il difensore, ma un ingombrante guardiano che tutto controlla, spinto dall’assunto che tutti siano potenzialmente pericolosi.
Sarebbe poi interessante, nel caso dell’Australia, vedere come questo controllo verrà gestito nei confronti di comunicazioni con cittadini di altra nazionalità.
Comunque la si veda, il punto di arrivo di questa corsa alla sicurezza sembra esser una sempre minore tutela della propria privacy. Rimane da capire quanto, nell’epoca dei social onnipresenti si possa ancora parlare di privacy, iniziando a capire se davvero abbiamo ancora qualcosa che non sia stato già condiviso.
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