Autore di indiscutibile talento, James Augustine Aloysius Joyce, meglio noto semplicemente come James Joyce, fu uno dei maggiori esponenti della letteratura europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo, fautore di una vera e propria rivoluzione linguistica e letteraria.
Nacque il 2 febbraio 1882 a Rathgar, in Irlanda e morì a Zurigo il 13 gennaio del 1941; fu uno dei pilastri della corrente letteraria nota come modernismo, alla quale diede il proprio pregevole contributo soprattutto attraverso la sperimentazione linguistica, al punto da meritare l’attenzione della critica letteraria successiva ed essere considerato uno dei migliori scrittori della sua epoca e della storia della letteratura di tutti i tempi.
Non mancano le curiosità sul personaggio che pare avesse una lunga sfilza di malanni che minavano seriamente la sua salute. Si sa che era quasi completamente cieco a causa di una forma particolarmente grave di glaucoma, in conseguenza della quale dovette addirittura subire l’asportazione totale delle arcate dentarie, attinte da un’infezione progressiva e galoppante che fu ritenuta la diretta responsabile dell’insorgenza della patologia agli occhi.
E ancora, è noto che James Joyce fosse solito comporre le sue opere sdraiato a pancia in giù sul letto e che scrivesse con una grande matita a pastello, con indosso solo un camice bianco; probabilmente perché il pastello della matita – stanti le precarie condizioni della sua vista – gli consentiva di vedere meglio ciò che scriveva e il colore bianco del tessuto del camice che indossava rifletteva più agevolmente la luce sulle pagine del suo manoscritto, specie quando si avvicinava l’imbrunire.
Ma non è tutto! Sappiamo che il nostro autore era un appassionato dell’Opera italiana ed effettivamente frequenti sono nei suoi lavori (specie nel famosissimo Ulysses) i richiami e i riferimenti a frasi tratte da arie e opere oppure a nomi di cantanti famosi.
Tra l’altro Joyce aveva egli stesso una vera e propria attitudine canora (eredità paterna, senza dubbio!) che lo spinse nel corso degli anni a prendere lezioni di canto per coltivare tale arte; la conseguita preparazione gli valse addirittura, nel 1904, la medaglia di bronzo al festival Feis Ceoil, una manifestazione musicale particolarmente rinomata che si tiene, ancora oggi, ogni anno, in Irlanda.
Joyce era un tenore votato al successo; peccato che decise di interrompere di punto in bianco le lezioni e lo studio del canto, e con essi anche la strada per la celebrità nel mondo canoro.
Ma perché questo padre letterario del Novecento è così importante per la storia della letteratura irlandese ed europea in generale? La risposta al quesito non è proprio di pronta soluzione e presuppone una conoscenza approfondita non solo del Joyce autore, ma anche del Joyce uomo.
Quel che salta immediatamente all’occhio, nell’indagare le ragioni di tanta “fortuna”, sono le particolari innovazioni stilistiche, linguistiche e soprattutto tematiche che la sua produzione contiene e che hanno consentito all’autore di sconfinare e sdoganarsi dal suo mondo di provincia per diventare un artista cosmopolita e di impareggiabile caratura, fino a rendersi un vero e proprio “influencer” (per dirla con un termine contemporaneo! ) per molti altri scrittori e artisti della sua epoca e di quelle successive.
Emblematica è la capacità di Joyce di fotografare l’inquietudine umana, ritraendo il disagio delle persone comuni, quelle della strada, quelle che combattono nel cammino della loro vita con le angosce, le frustrazioni, i dolori e la loro naturale inclinazione a incarnare il prototipo dell’antieroe. I personaggi di Joyce raccontano le proprie vicende attraverso quello che viene definito il “flusso di coscienza” e risultano spesso soggiogati e mortificati dalle debolezze dell’esistenza.
In Gente di Dublino, ad esempio, tutto ciò è particolarmente evidente; i quindici racconti che compongono la raccolta emergono da una narrazione talmente realistica da rasentare i limiti dello scabroso ed affidano il loro incedere al ricordo di una Dublino vista dal basso e ormai irrimediabilmente lontana, per via dell’esilio volontario che Joyce decise di vivere trasferendosi a Trieste, ove – pur lontano dalla sua terra natìa e dai suoi affetti – gli era consentito, in compenso, il confronto con un ambiente intellettuale decisamente più stimolante di quello dei salotti irlandesi.
Non è un caso che proprio a Trieste egli fece le conoscenze più rilevanti della sua vita e arrivò a forgiare la personalità letteraria di autori che di lì a qualche anno avrebbero segnato in positivo la storia della letteratura italiana, primo tra tutti Italo Svevo, che di James Joyce fu il più brillante allievo.
Ma il più grande capolavoro letterario di James Joyce è senza dubbio l’Ulysses, storia inizialmente nata e pensata come uno dei racconti della raccolta Gente di Dublino e poi confluita in un romanzo autonomo, le cui prime copie uscirono e furono vendute a Parigi il 2 febbraio 1922, nel giorno del quarantesimo compleanno di James Joyce.
Attorno all’Ulisse ebbe a insinuarsi l’equivoco fortunoso; molti lo acquistarono appena uscito pensando che contenesse materiale pornografico, per via dell’accusa di oscenità che addirittura ne impedì la pubblicazione in America sino al 1934 e in Inghilterra addirittura sino al 1936.
Il romanzo fu un grande successo e garantì anche un discreto introito economico al suo autore, che però non poté godere di altrettanta fortuna e felicità nella vita privata per via dei suoi gravissimi problemi alla vista e della schizofrenia sempre più seria da cui era affetta la figlia, circostanza che rese l’esistenza di Joyce via via più destabilizzante e triste.
Nell’Ulisse si ritrae la cronaca di una giornata comune, il pellegrinaggio di Leopold Bloom per le strade di Dublino, che è un po’ la parodia delle peripezie dell’Ulisse di Omero, del quale Leopold Bloom sembra la copia umanizzata e spogliata delle virtù che dell’Ulisse originale fanno l’eroe per antonomasia.
È proprio in questo romanzo che interviene e si esplica, in tutta la sua potenza, la tecnica del monologo interiore che diventa “flusso di coscienza”, il procedimento narrativo attraverso cui il personaggio espone il proprio pensiero proprio mentre questo prende forma, senza un filtro apparente; il flusso di coscienza altro non è che la tecnica attraverso cui James Joyce, a discapito di ciò che sembra, non annulla, ma piuttosto racconta se stesso in una sublime immedesimazione nel personaggio.
Il 2 febbraio auguriamo buon compleanno a James Joyce…e al suo Ulysses!
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