Piccolo, alto poco più di un metro e una spanna, aveva compiuto 8 anni da un mese e tre giorni e lui si sentiva già un ometto.
Come ogni domenica mattina, balzò giù dal letto per raggiungere gli amici nella piazza del paese, ancora sonnecchiante infilò i calzoncini verdoni, la camicia bianca con le maniche arrotolate, e le scarpe stringate color cuoio, sollevò le bretelle e con lo sguardo indagatore iniziò a fissare la sua immagine riflessa nello specchio. Si scompigliò i capelli che gli cadevano dritti sulla fronte, ora sì poteva andare, la mamma aveva voluto che li tagliasse poco prima dell’inizio della scuola ma lui così in ordine proprio non si vedeva.
Così fiero e impettito era pronto per inforcare la sua bicicletta, scendere per la stradina che costeggia la villa, quella con il basolato sconnesso che faceva tremare forte il manubrio della bici, fermarsi dal giornalaio per prendere le figurine dei calciatori di cui faceva la collezione e raggiungere Antonio e Gianni, che lo aspettavano già da un pezzo.
A settembre, in Salento, le giornate sono ancora calde, il sole riflette sui palazzi di pietra leccese, calcarea, porosa, che assorbe la luce e la sprigiona come se fosse tutto bianco, luminoso. Il vociare di sottofondo dei passanti, il tepore dei raggi sulla pelle e nell’aria il profumo di pane alle olive. Ecco, Nino non vedeva l’ora di aprire la porta e farsi abbracciare dalle strade del suo paese, dalle storie che si rincorrono nei vicoli, dal caldo afoso di mezzogiorno che immobilizza il tempo.
Ma prima di uscire di casa, c’era un’altra cosa che Nino amava fare la domenica mattina. Già pronto per uscire sgattaiolava in cucina dove la mamma e la nonna erano affaccendate nella preparazione del pranzo domenicale. Si infilava nel cucinino e, prestando attenzione a non farsi beccare, rubava un tozzo di pane e lo intingeva nella pentola del sugo che ancora ribolliva sui fornelli. Poi sollevava il canovaccio con cui la mamma ricopriva la pasta fresca, dava un’altra occhiata, e iniziava ad accarezzarla. La prima, la seconda, la terza, avevano tutte quel ricciolo ritorto su se stesse. Delle sagne ‘ncannulate perfette. La farina trasformava i polpastrelli in vellutino, poi portava l’estremità delle dita al naso e respirava a pieni polmoni quell’odore di massa impastata, lavorata con amore. L’odore della domenica. Ne rubava un pezzo ancora crudo, lo masticava veloce e subito dopo, via, era pronto per correre in piazza.
È così che abbiamo immaginato l’origine di un tipico piatto domenicale della cucina tradizionale pugliese, nella fattispecie salentina. Una tradizione legata alla ritualità, agli affetti, ai sapori di casa.
Un piatto rustico, dal gusto deciso, appartenente alla così detta cucina povera, che si realizza con pochi elementi, ma essenziali: acqua e farina. Ricordiamo che più del 20% del grano italiano prodotto in queste terre, e viene poi riutilizzato per realizzare piatti magnifici in grado di esaltare ogni singolo elemento della regione, celebrandone il gusto.
Per le sagne ‘ncannulate si usano 500 grammi di farina di semola di grano duro, acqua e un pizzico di sale. Le varianti prevedono di mescolare alla semola farine di orzo, farro o grano arso.
Dopo aver amalgamato gli ingredienti e aver realizzato un impasto morbido e compatto, se ne ricava una sfoglia dello spessore di pochi millimetri e liscia al tatto. Si tagliano le fettucce che, successivamente, si arrotolano attorno al dito e si curvano.
Per il condimento ci si affida al classico dei classici: sugo e ricotta forte.
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