Ho conosciuto Maria Antonietta D’Onofrio, medico di famiglia per professione e scrittrice per passione, in occasione di un incontro di divulgazione alla cittadinanza sulla violenza di genere; vi partecipò portando all’evento un contributo preziosissimo, la lettura di alcune sue poesie tratte dalla raccolta “Tu che mi dovevi amare”.
Ci raccontò di sentimenti delusi, di identità violate, di ferite dell’anima, di quanto di più drammatico possa accadere ad una donna, ma a me sembrò che le sue parole, nel dare voce a tutte quelle donne tradite dalla vita e piombate nel dramma peggiore della propria esistenza, ne celebrassero in fondo la forza, piuttosto che la debolezza.
Percepii immediatamente che Maria Antonietta aveva un grande dono, aveva voglia di confrontarsi con l’umanità e di coglierne le sfaccettature, era vera e profondamente toccata da ciascuna di quelle storie che riportava a tutti noi; con quelle figure femminili dimenticate da Dio e dal mondo era in assoluta empatia e di quelle donne voleva farsi portavoce.
Ho letto altri lavori della scrittrice, incuriosita dal nostro primo incontro, e le mie prime impressioni sono state assolutamente confermate; la sensibilità dell’approccio a tematiche così difficili, talmente difficili da rischiare di essere banalizzate se non affrontate con il giusto metro, è presente in ogni lavoro di Maria Antonietta D’Onofrio e credo che ciò sia possibile perché di tale sensibilità è connaturata la sua persona.
Il mio dialogo con l’autrice è stato motivo di grande arricchimento per me ed ha disvelato valori ed insegnamenti dai quali dovremmo tutti trarre qualcosa di importante, per imparare a non avere paura della diversità, ma a considerarla una risorsa, e per comprendere che alle persone che vivono un momento difficile, una violenza, una malattia o quanto altro di negativo la vita abbia riservato loro, non deve mai e poi mai negarsi dignità.
Buongiorno Maria Antonietta, vorrei innanzitutto chiederle come nasce la sua passione per la scrittura?
Scrivere è un gesto, un’azione, ed è un’abitudine che ho da quando ero piccolina. Sin dalle scuole elementari, riempivo di parole i miei quaderni e ho continuato a farlo negli anni successivi. Molti di quei fogli, dopo tanti anni, sono ancora in giro per casa, alcuni rinchiusi in una scatola di latta a fiori che chiamo “scatola dei ricordi”.
Perché scrivevo già da allora? Ho cercato di darmi delle risposte: ero una bambina taciturna; spesso mi isolavo, mi vedevo brutta, costretta a indossare “occhiali con vetri spessi come fondi di bottiglia” per la mia grave miopia. Scrivevo e nascondevo i miei scritti, quasi fossero un peccato. Probabilmente, allora, la mia scrittura nasceva da una forma di disagio, magari vago, inconsapevole data la giovanissima età, ma sicuramente importante. Ho continuato a scrivere nel corso degli anni, ma più saltuariamente per via degli impegni di studio e di lavoro.
Poi, un giorno, una semplice frase pronunciata dalla mia nipotina, ha cambiato il mio rapporto con la scrittura. Ero andata ad aspettare la bimba, all’uscita della scuola e, mano nella mano, tornavamo verso casa. La piccola chiacchierava, era un fiume in piena e ad un certo punto disse: sai, zia, nella mia testa passano tanti pensieri e io devo dirli, altrimenti non valgono nulla.
Mi colpì molto questa frase, mi sembrò una poesia stupenda, una lezione di saggezza e mi rivelò un concetto che io, pur essendo adulta, non avevo ancora scoperto: la condivisione e la necessità di praticarla tra gli esseri umani. È vero, pensai, un pensiero prima o poi si perde, se rimane chiuso nella nostra testa. Arrivata a casa, cercai tutti i miei vecchi fogli, i quaderni, i vari appunti custoditi nella scatola di latta, svuotai il tutto sul pavimento, rilessi ogni cosa. Sorrisi e provai molta emozione. Quelle carte sembravano dirmi: prenditi cura di noi, raccontaci a qualcuno. Ecco, la scrittura, che in quel momento significava rimettere nero su bianco, raccontare e raccontarsi, rendere pubblici i sentimenti, scoprirsi l’anima, iniziò proprio per esercitare la “condivisione” sentita come necessità. Necessità di voler essere e non solo apparire, necessità di affermare la propria identità e affermarla rapportandola all’identità collettiva, mischiarla con essa, essere parte di un mondo dal quale non si può prescindere.
La sua carriera di scrittrice comincia a diventare dirompente con il romanzo “Il silenzio che racconta la vita e il rosmarino”, un’opera che conduce il lettore in un paesaggio lunare, quello dei calanchi di un piccolo paesino della Lucania. Si tratta di una storia di dignità negata, quella di Lisa, la protagonista che subisce lo scherzo di un destino beffardo, che l’ha voluta alla luce di marzo e donna. Ma la temperanza di questa donna le regala il riscatto. Qual è la vera forza di Lisa? Cosa le consente di andare avanti nonostante tutto?
In realtà “Il silenzio che racconta la vita e il rosmarino” è il mio secondo romanzo. Il primo s’intitola “Ora aspetto la vita che mi cerchi” ed è la storia di un’adolescente che diventa adulta insieme al dolore, all’abbandono e al disagio di relazionarsi con gli altri.Da subito, quindi, affronto i concetti di diversità e di normalità, che ormai considero concetti vuoti, e che saranno ripresi un po’ in tutti i miei scritti.
Quando scrissi questo primo romanzo, mi colpirono due aspetti: avevo portato a compimento la storia il 4 ottobre, giorno di San Francesco d’Assisi, signore degli umili, e mentre scrivevo la parola “fine”, una mia paziente mi annunciava la nascita della sua prima bambina. Mi sembrarono subito due segni importanti, mi rendevano consapevole di essere una voce sconosciuta e piccola di fronte all’oceano dell’editoria, come sconosciuta e piccola era la vita della mia protagonista.
Così da allora, racconto, come accade anche ne “Il silenzio che racconta la vita e il rosmarino” la voce di altri esseri umani, umili e piccoli come me, figure che la storia si lascia alle spalle o che semplicemente ignora. Ho compreso che questa è la strada: dare voce a esseri “non ascoltati”, raccontarne il dolore, ma anche i sogni, le speranze e il coraggio. Inviare messaggi, attraverso storie forti, a volte estreme, di disagio, dolore, violenza verso l’infanzia, la donna, gli esseri umani considerati “diversi”, vittime della miopia e dell’indifferenza del mondo.
Come Lisa, protagonista de “Il silenzio che racconta la vita e il rosmarino” che vive una condizione di disagio, ma è un’anima forte, una quercia, convinta, come lei stessa afferma “che la storia si può cambiare”, che essere donna e per giunta donna del Sud, non è una condanna, ma semplicemente la condizione dalla quale partire, attraverso scelte spesso dolorose, per riscattarsi, uscire dall’isolamento, entrare in quel mondo oltre il paeseche forse è più difficile da affrontare, ma che fa conoscere la libertà.
La libertà di essere liberi.
La sua successiva pubblicazione “Poeti di mandorla amara”, denota una grande umanità, ma anche una profonda conoscenza dell’umanità. Partorisce l’idea di creare la sua storia a seguito dell’incontro con una persona che sentiva di essere “nata sbagliata”. Cos’ha voluto raccontare o qual è il messaggio che custodisce nel suo cuore e che intende rivolgere a “tutti gli esseri sbagliati sparsi per ilmondo”?
Poeti di mandorla amara è il verso di una poesia di Lorca, uno dei miei poeti preferiti. Leggendo la poesia, mi sono chiesta chi sono i poeti di mandorla amara? Per scoprirlo non necessita una grande umanità, serve semplicemente guardarsi intorno: i poeti di mandorla amara sono i bambini che muoiono nella fame, privati dei beni più elementari, del diritto alle cure, abusati, torturati; sono giovani mandati in guerre assurde, giovani senza lavoro ai quali noi adulti non riusciamo a dare un futuro, sono le spose bambine, le donne violentate, ferite, uccise, sono gli esseri umani messi a tacere, o finiti sul fondo del mare.
Ma sono anche quelli che trovano il coraggio di gridare contro le mafie e le ingiustizie, quelli che si avvalgono della cultura per abbattere le barriere e affermare i diritti umani. Sono le persone semplici che si mettono in gioco per offrire ancora sogni di speranza per un mondo migliore.
Il senso della nostra esistenza dovrebbe essere uguale per tutti, indipendentemente dalla condizione sociale e culturale, dall’area geografica nella quale ci è capitato di nascere, dall’essere maschi, femmine o angeli, come mi piace dire, adulti o giovani. Alla base c’è la dignità da pretendere e da dare. In Poeti di mandorla amara, tendo proprio ad affermare il concetto di dignità. Dignità perché si è, non per cosa si è. Ma troppo spesso, per molti, per i nati sbagliati, l’affermazione della propria dignità, passa attraverso strade di disagio e di dolore, etichette di diversità.
Il messaggio del libro è che non esiste la diversità oppure è solo un vocabolo sbagliato, e che non esiste la normalità, un altro vocabolo sbagliato. E se proprio ammettiamo la loro esistenza, allora dobbiamo pensare che sono sinonimi, due piante cresciute dalla stessa terra e sotto lo stesso cielo.
Si è cimentata anche nel genere della poesia ed un particolare successo ha avuto la raccolta di poesie dal titolo “Tu che mi dovevi amare”. Perché parlare di violenza di genere o di questione di genere?
In realtà ho iniziato scrivendo poesie, senza mai pubblicarle. “Tu che mi dovevi amare” è una raccolta di poesie che arriva dopo i tre romanzi e nasce dalla necessità di rendere omaggio alle donne, “alle stelle mai svanite”, “a ogni donna che continua a lottare per la vita”. Scrivere poesie sulle donne è abbastanza felice e abbastanza doloroso (come scrivo in una pagina di Poeti di mandorla amara).
Cantare la bellezza delle donne, i loro occhi, i loro sorrisi, l’amore che sanno donare, è semplice. Cantare la negazione delle loro vite, è un canto distorto e doloroso, ma necessario, perché le violenze, le morti che quotidianamente ci vengono raccontate dai media, non diventino (come rischiano) solo statistiche, fatti di cronaca che dopo pochi minuti scivolano dal nostro corpo, senza toccarlo, senza impressionarlo, come se non fosse nulla accaduto o come se fosse una finzione.
Le donne che hanno subito violenza, a qualunque livello, non sono un universo di numeri, sono pensieri, idee, sentimenti, speranze, aspirazioni, corpi massacrati, privati del loro respiro, dimenticati troppo in fretta, anche dalla giustizia. Corpi che custodivano vite. Non è mai abbastanza cantare le donne, pensare io sono loro e loro sono me, sentirsi mille donne, sentirsi dell’Est e dell’Ovest, del Nord e del Sud, di ogni luogo dove la violenza si consuma.
Ho letto da qualche parte che Giustizia è prima di tutto un ideale, quindi qualcosa che esiste nel mondo dell’idea, prima ancora di esistere nella realtà. Giustizia è un principio morale, prima di essere legge. È una virtù, prima ancora di essere legge e deve fondarsi su due pilastri che sono l’amore e il rispetto. Amore è la negazione della morte, quindi tutti dovremmo imparare l’amore, altrimenti non ci sarà mai giustizia. Rispetto è guardare indietro, guardarsi attorno, sapere che esistono altre creature che vanno appunto rispettate, come le donne.
Quindi bisogna imparare il rispetto, altrimenti non ci sarà mai giustizia. Bisogna continuare a parlare di violenza di genere e di questione di genere, affinché, in tutti, possa elevarsi la legge morale, la cultura dell’amore e del rispetto, che sicuramente precedono la giustizia giuridica, spesso a sua volta, violentata e uccisa.
Sappiamo che ha in programma una prossima imminente pubblicazione; ancora un romanzo. Ci vuole regalare quale dettaglio in anteprima?
Sì, a giorni uscirà un nuovo romanzo, sempre per Mannarino Editore. Un racconto che definisco difficile, spesso crudo, estremo. Sono sicura che qualche lettore sarà portato a pensare che sia una storia esagerata, al limite.
Io dico che spesso la realtà è al limite, ma non ce ne accorgiamo, o preferiamo ignorare, restando al buio delle nostre coscienze come in case confortevoli. È una storia di amore e di violenza che si fondono, di abusi, di bulimia e anoressia, di disagio fisico e psicologico. Ma è anche una storia di speranza che viene fuori da un lunghissimo processo di analisi del dolore, inteso come sentimento capace di improntare la vita, trasformandola. Rendendola buia come un pozzo senza fondo, ma anche chiara come la prima luce della mattina.
E soprattutto unica, pietosa, con due grandi occhi spalancati nel mondo, per correre là dove c’è altro dolore. E alleviarlo. A quest’ultimo romanzo tengo in maniera particolare, e chi lo acquisterà, saprà che, con il suo gesto, darà un contributo a una bella associazione che si occupa d’infanzia e di disabilità.
Quanto è importante leggere per chi si cimenta nella scrittura? A lei cosa piace leggere in particolare?
Ho sempre considerato la lettura e la scrittura, mezzi incredibili nell’aiutare a crescere, difendersi dal negativo che ci circonda, guarire da molti mali, fornire sguardi più ampi alla nostra piccola esistenza.
Con un libro, lo diciamo in molti, non si è mai soli, perché sia che scriviamo, sia che leggiamo, entriamo a far parte della storia narrata; di colpo ci ritroviamo tra le pagine che da bianche e anonime, si riempiono di lettere e noi camminiamo tra le righe e le parole come in una casa che all’improvviso ci apre la sua porta, o in una foresta che ci offre il sentiero per scoprire i suoi segreti.
La lettura è fondamentale e già da molti decenni, considerata alla stregua di una vera e propria terapia. Lo slogan potrebbe essere: un libro al posto di un farmaco, perché la lettura ci rende più liberi, meno soli, accresce la percezione di se stessi, ci educa, ci fa scoprire gli altri, ci fa immedesimare in altre storie, accorcia le distanze geografiche e umane, consola, predispone alla crescita, al cambiamento, sviluppa l’attività empatica. Insomma, ci cura.
Mi piace molto il concetto di Empatia sul quale voglio soffermarmi. Empatia significa “sentire dentro” “essere dentro il sentimento” ed è questo il miracolo che compie la lettura. Scrivo e leggo, quindi, perché mi piace “essere dentro il sentimento”, non diventare un’isola, continuare a scoprire il significato delle parole, il messaggio nascosto in ognuna di esse. Leggo, come dicono in molti, per legittima difesa.
Per arricchirmi, per continuare a imparare a scrivere. Leggo molti romanzi, amo poco gli horror e i racconti di fantascienza. Amo la poesia sia classica che contemporanea. Invito spesso i miei pazienti e soprattutto i giovani a leggere di più e anche a scrivere, perché credo fermamente che se riuscissimo ad appassionare i giovanissimi alle varie forme dell’arte, compresa la scrittura, otterremmo ogni volta piccole vittorie contro grandi mali, come violenza, droga, bullismo, apatia.
Come scrivo in “Poeti di mandorla amara” la scrittura è un filo che tiene attaccati alla vita, e quando si ama la vita, si amano le persone, la natura e ogni forma del creato.
Come concilia la sua intensa attività di produzione letteraria con quella che è la sua professione principale di medico e con quella ancor più importante di moglie e madre?
La scrittura, come dicevo, era un mio vecchio desiderio, rimasto insoddisfatto per molti anni, avendo dato priorità al lavoro, alla famiglia, a mia figlia. Ho iniziato il mio primo romanzo con l’intenzione di raccontare un disagio, forse il mio, forse i tanti disagi che scopro nella mia professione di medico di famiglia, sfidando il mio poco tempo a disposizione.
Scrivevo, come accade ancora adesso, soprattutto di notte, dopo aver portato a termine compiti di altro genere richiesti dalla mia giornata, in un’età (erano i cinquantaora sono i sessanta) che per una donna significa essere tante cose messe assieme, essere madre e ancora figlia, un impasto di doveri, ma anche di sogni mai dismessi, desideri e ricerca di nuove prospettive, usando tutta la mia forza che poi è la forza genetica tipica della donna.
Il mio lavoro di medico e in particolare di medico di famiglia, mi ha aiutato e continua ad aiutarmi nella scrittura perché mi ha insegnato quello che mi piace definire “ascolto globale” che è un mettersi in ascolto con tutti i sensi che abbiamo a disposizione e che spesso sono spenti o assopiti.
Da medico, non puoi tirarti indietro: devi ascoltare per davvero, dare risposte, consolare, trovare soluzioni. Con l’ascolto globale, scopriamo di essere circondati da migliaia di storie racchiuse nei corpi della gente, nelle pieghe dei loro visi, sulle loro mani, migliaia di vite e sentimenti che aspettano di essere raccontati o di raccontarsi.
Senza vergogna. Con pudore, ma anche sincerità.
La ringrazio di cuore per questa edificante chiacchierata, per averci arricchito con l’alto valore dei suoi pensieri e per tutti gli insegnamenti che possiamo trarne.
Grazie a Voi!
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