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INTERVISTA A BEATRICE MAUTINO: INGANNI E BUGIE SUI COSMETICI E I CONSIGLI PER DIFENDERSI DALLE INSIDIE DEL MARKETING

Quotidianamente siamo sommersi da pubblicità sulle ultime novità nei campi più disparati: dalle più recenti tecnologie, dal cibo sempre più bio fino ai cosmetici. Un’offensiva senza sosta di informazioni. Giornali, internet, televisione sono sempre in prima fila nella battaglia delle inserzioni. Ma cosa sappiamo veramente di ciò che acquistiamo? Solo ciò che il marketing vuole farci sapere: davvero poco. 

Diciture che recitano ‘’ senza parabeni’’, ‘’ prodotto non testato su animali’’ ‘’senza questo ingrediente e senza quello là…’’ Ma quanti sanno realmente cosa sono i parabeni ad esempio? Sono davvero così pericolosi come lasciano che appaiano? E l’acqua micellare è così speciale?

Di tutto questo ce ne parla Beatrice Mautino, laureata in Biotecnologie Industriali e ricercatrice di Neuroscienze all’Università di Torino. È una divulgatrice scientifica molto attiva sui social network e YouTube. Solamente su Instagram ha raggiunto ad oggi quasi 40 mila followers.

Ha scritto un libro dal titolo “Il trucco c’è e si vede” ( edito da Chiarelettere, 2018) dove svela i trucchi che il marketing perpetra sui nostri cervelli. 

Ha affermato:

“Da giornalista scientifica
mi trovo a indagare
oltre le apparenze usando
i metodi della scienza.
Sono sicura che dopo
aver letto questo libro
guarderete i cosmetici
con occhi diversi”

Come ha partorito l’idea di scrivere “ Il trucco c’è e si vede’’?

Ho iniziato ad occuparmi di questi temi perché mi sono resa conto, sebbene ci fosse tanta comunicazione sui cosmetici, che questa comunicazione era soprattutto di tipo pubblicitaria, promozionale, mancava un po’ di informazione critica e indipendente. Ho cercato qualcosa di simile in Italia ma non ho trovato niente e ho deciso di occuparmene io, in più i cosmetici sono un argomento trasversale che interessa ben o male un po’ tutti e quindi mi interessava  non solo da un punto di vista giornalistico ma anche da un punto di vista più educativo. Sapevo che mi avrebbe permesso di raggiungere persone giovani, soprattutto ragazze che con la scienza generalmente non vanno tanto d’accordo. Mi è sembrata una bella sfida.

Il suo libro evidenzia una quantità notevole di bufale che quotidianamente ci vengono propinate dalle grandi aziende cosmetiche. Dagli shampoo alle creme anti- rughe, per esempio. Dai prodotti senza parabeni a quelli con il famigerato bollino del coniglietto, simbolo del cruelty-free. Una vera guerra commerciale caratterizzata da un bombardamento di disinformazione. Il consumatore ha la possibilità di riconoscere questi inganni perpetrati dal marketing e combattere gli allarmismi?

Non li chiamerei propriamente inganni perché in fondo è tutto legale, non si tratta di bufale ma di trucchi del marketing che permettono di far leva sulle aspettative dei consumatori e sulle loro paure. Il consumatore dinanzi a queste cose qui si trova spaesato perché non ha strumenti per interpretarle. Ciò che io ho cercato di fare nel libro è stato quello non tanto di smascherare la singola bufala o fake news ma di dare degli strumenti generali come far sapere che quello che viene scritto su una confezione, al di là dell’elenco degli ingredienti o della data di scadenza,  è materiale pubblicitario. Bisogna imparare a leggere le informazioni forniteci con un minimo di spirito critico e imparare a farsi delle domande e, poi, a darsi delle risposte.  È difficile parlare di strumenti perché non ci sono regole semplici. Se ci fossero non ci sarebbero neanche le bufale. 

Questo libro ha anche il pregio di svelarci il percorso legislativo alquanto complicato che un cosmetico deve affrontare. È proprio la non conoscenza di questo iter che spesso genera le idee di complotto e macchinazione. Qual è la sua idea nei confronti di chi, invece, nega tutto questo? C’è una sfiducia nei confronti delle istituzioni da parte dei consumatori? 

Ci terrei a precisare che, innanzitutto, questa è una sfiducia generalizzata che non riguarda unicamente i cosmetici, è un fenomeno a cui assistiamo in tutti i campi. La scienza devo dire che ne è abbastanza protagonista. C’è una sfiducia nelle istituzioni, verso gli organi intermedi e nei confronti di quelli che, come me, fanno informazione e si mettono a metà tra le istituzioni e i cittadini. Si desidera avere informazioni o di prima mano o da persone di cui ci si fida e, purtroppo, per quanto riguarda i cosmetici, il campo è stato lasciato libero negli anni passati. Questo ha favorito la crescita  di guru che, con una certa competenza, hanno  iniziato a dispensare consigli non sempre basati sulla scienza; nonostante ciò sono persone di cui il consumatore è portato a fidarsi perché sono visti indipendenti. È difficile riuscire ad infilarsi in questo rapporto di fiducia e comunicare gli strumenti dello spirito critico riuscendo a contrastare gli allarmismi. È un lavoro molto duro e non è qualcosa che si può risolvere con la pubblicazione di un libro. Si tratta di un processo piuttosto lungo.

Un altro argomento che crea divisione è quello dei test sugli animali. Lei ci racconta di come in molti non sono a conoscenza del fatto che in Italia la sperimentazione sugli animali sia vietata ormai dal anni. Allora a cosa servono quei bollini che compaiono su molti prodotti?

C’è una legge che vieta la sperimentazione animale dei cosmetici da tempo: dal 2004 i prodotti finiti, dal 2009 gli ingredienti e dal 2013 l’importazioni di prodotti testati su animali da altri Paesi. C’è una legge che tutela da un lato i consumatori e dall’altro gli animali e che vieta che vengano fatti questi test. Se oggi acquistiamo un cosmetico al supermercato o in una profumeria, siamo certi che non sia testato su animali. Ci sono molte eccezioni che nel libro racconto di test che vengono fatti su ingredienti utilizzati anche in altri settori come quello farmaceutico. Quindi non è vero che i cosmetici sono tutti cruelty-free! Ci sono ingredienti che per forza di cose vengono usati in altri settori e quindi devono essere testati. Il bollino del coniglietto, ad esempio, simbolo del cruelty-free, da questo punto di vista non fa la differenza. È una certificazione volontaria che non è indice di una qualità maggiore né di differenza rispetto ad un altro prodotto che potremmo trovare di fianco sugli scaffali e che non ha semplicemente aderito a questa certificazione. Questa sorta di informazione in più, esplicata sulle confezioni dei prodotti, è stata persino multata perché poteva trarre in inganno il consumatore. Scrivere, oggi, cruelty-free non è più possibile e tale dicitura è stata sostituita da ‘’ stop al test sugli animali’’. Alcune aziende sono state multate per aver scritto cruelty-free sulle confezioni dei loro prodotti, accusate di  pubblicità ingannevole, perché davano l’idea  che fossero esclusivi e che i prodotti di altre aziende, invece, non lo fossero. 

 Competitor come l’India, la Cina o la Corea con regole legislative molto meno rigide sulla cosmesi rispetto a quelle italiane, possono  mettere a rischio gli equilibri di mercato delle industrie europee o americane? Competivi nel prezzo ma non negli standard di sicurezza?

Se questi competitor vendono in Europa devono seguire le regole europee, devono adeguarsi alla legislazione locale, quindi, da un punto di vista della sicurezza un cosmetico che arriva in Europa dalla Corea, dalla Cina o dal Giappone ( per vie legali si intende) ha seguito tutte le regole di produzione e di sicurezza dei cosmetici europei. C’è, poi, tutto un sotto bosco di mercato illegale non propriamente controllato come quei cosmetici acquistati su internet che non hanno il bollino CEE e quelli chiaramente sono un azzardo. C’è anche da dire che questi Paesi non hanno regole così diverse dalle nostre; certo l’Europa è il posto più sicuro in assoluto ma è improbabile che si rischi la vita mettendosi una crema senza gli standard europei ma quando si acquista su internet bisogna accertarsi che questi cosmetici abbiano quantomeno il bollino della comunità europea. Chiaramente da un punto di vista di mercato questi possono essere dei competitor importanti ma l’Italia è il più grande Paese di esportazione di cosmetici al mondo e di fatto sono le aziende italiane a produrre per quelle asiatiche. Basti pensare che l’Italia esporta circa il 60% circa dei cosmetici mondiali. 

 Lei ha anche un canale su YouTube. Cosa pensa di quegli YouTuber che hanno fatto delle recensioni cosmetiche un lavoro vero e proprio? 

Penso che sia un lavoro come un altro. Prima di YouTube ci sono sempre state le recensioni, esistevano altri canali. Oggi è solo tutto più veloce e diretto.

Credo che ci siano due tipi di beauty-tube: ci sono quelli che realmente fanno recensioni utili e a me personalmente piacciono molto perché si concentrano sulle caratteristi di un determinato prodotto. Ad esempio il make-up è difficile acquistarlo a scatola chiusa. Bisogna sapere ad esempio se un fondotinta è a lunga tenuta o un ombretto genera fall out sul viso…quindi le recensioni tecniche di un make up artist sono davvero molto utili. Poi c’è un’altra categoria, molto simile ai cartomanti che sono lì, dinanzi alla telecamera, e leggono l’INCI interpretando la lista degli ingredienti, cercando di tirar fuori chissà quali caratteristiche dai prodotti e di questa categoria non ho una buona opinione. Persino un cosmetologo non sarebbe in grado di capire se un prodotto è valido o meno leggendo semplicemente la lista degli ingredienti perché bisogna tener conto di come siano stati mescolati e in che quantità. Sono fattori determinanti che fanno la differenza. Queste persone sulla base di una lista di ingredienti ”riescano a capire” se un prodotto è valido o no  o addirittura lo sconsigliano perché contiene un ingrediente che può esser pericoloso. Hanno contribuito a creare molta della disinformazione che viviamo oggi. L’idea che i siliconi, ad esempio, creino una pellicola plastica sulla pelle è emersa a causa di tali recensori. La parola ‘’schifezze’’ riferita ad alcuni ingredienti come i siliconi, è una parola nata proprio da loro. Per quanto riguarda la questione delle sponsorizzazioni, invece, non ci vedo nulla di male che si facciano recensioni su prodotti ricevendo un compenso economico dalle aziende purché sia esplicato che si tratta di un messaggio pubblicitario. 

Una delle più grandi battaglie che ogni donna si trova a dover affrontare prima o poi nella vita, è la scelta della crema anti-rughe. Ce ne sono delle più disparate, da quelle economiche da supermercato o quelle reperibili in profumeria a prezzi esorbitanti. Sono davvero cosi differenti ma soprattutto ne esiste davvero qualcuna in commercio che sia efficace? 

Non sono così differenti e sì, ne esistono di efficaci. La questione del prezzo è stata a lungo studiata non solo in campo cosmetico ma anche in altri settori. Ciò che emerge dalle analisi di mercato è che il prezzo è una variabile completamente indipendente dalla qualità.  Il prezzo di un prodotto viene stabilito sulla base di posizionamenti di mercato dal punto di vista di fattori economici e non qualitativi.  Esistono prodotti ottimi a prezzi bassissimi così come prodotti pessimi a prezzi altissimi. Ci si chiede come fare a capire se un prodotto è valido o meno partendo dal presupposto che il fattore prezzo non aiuta. Una domanda da un milione di dollari! La risposta sincera è che non lo si può capire osservando il prodotto e leggendo gli ingredienti. L’unico modo è provarli. Ci sono alcuni ingredienti noti per le loro azioni, non tanto anti-rughe ma di riduzione e di controllo delle rughe come i retinoidi o gli esfolianti, quindi, il fatto che una crema contenga questi ingredienti fa pensare che possa avere un’efficacia.  Cosi come dicevo prima, tutto dipende dalla quantità e da come tali ingredienti vengono mescolati e queste non sono informazioni condivise con il consumatore poiché non abbiamo una legge che obbliga le aziende a scriverne le quantità. Bisogna attenersi alla prova personale dei prodotti e considerare anche la fama dell’azienda. 

 Lei asserisce nel libro: Non è il prezzo che fa un buon prodotto. Quindi un prodotto high-cost non è garanzia di qualità?

Assolutamente no. Come già affermavo, l’Italia è uno dei più grandi esportatori di cosmetici e queste aziende italiane ( ma anche altre in generale) producono cosmetici per diversi marchi. Ciò significa che c’è un’alta probabilità che l’azienda che produce la crema anti-rughe per il marchio di lusso, lo faccia anche per il marchio da supermercato e gli ingredienti o i macchinari utilizzati per la produzione sono grosso modo gli stessi, quindi, è difficile che vi siano differenze sostanziali. 

Il nostro cervello ci mette del suo lasciandosi ingannare! Pretendiamo che un prodotto che costi molto funzioni di più. 

 Afferma anche che non esistono ingredienti innocui ma solo sicuri. Cosa intende di preciso? Questo vale anche per il settore biologico? E Il bio dizionario, per esempio, è un vademecum efficace per il consumatore?

La differenza tra innocuo e sicuro è una delle cose più difficili da comprendere. Siamo portati a credere che i prodotti che consumiamo debbano essere innocui e se c’è un sospetto che un ingrediente possa fare male siamo subito bloccati. In realtà consumiamo quotidianamente sostanze pericolose o cancerogene soprattutto attraverso le cose che mangiamo. Nel libro faccio l’esempio del pesto: il basilico ha una molecola cancerogena. È una di quelle cose che non si sa e in maniera inconsapevole assumiamo certe sostanze, però, poi da un cosmetico pretendiamo che sia innocuo. I cosmetici sono fatti di molecole e sostanze chimiche che hanno un certo grado di pericolosità, compresa l’acqua. Ciò che cerco di raccontare nel libro ( che è il punto focale di tutta la questione ) è che tu puoi maneggiare ingredienti pericolosi, però, devi dotarti di sistemi di sicurezza. Faccio l’esempio del leone: un leone è pericoloso ma se tu lo metti in gabbia lo rendi sicuro finché la gabbia regge. Quello che noi come consumatori dobbiamo pretendere dalle istituzioni è che costruiscano delle gabbie che permettano agli ingredienti pericolosi di essere sicuri. Questo vale sia per gli ingredienti chimici sia per quelli biologici. Ci sono tantissimi ingredienti utilizzati nel settore bio che sono anch’essi molto pericolosi e cancerogeni. Quando si parla del bio dizionario che di fatto dà dei colori agli ingredienti per indicarne il grado di sicurezza ( come un semaforo) questo si concentra sulla pericolosità degli ingredienti ( rosso, giallo, verde) ma non valuta il rischio non tenendo conto della presenza o dell’assenza di ‘’gabbie’’. Si può usare un ingrediente segnato con il colore rosso sul bio dizionario  ma se questo è messo al sicuro ( perché con una bassa concentrazione risulta non nocivo)  ha la stessa equivalenza di un prodotto verde. 

Quanti miti da sfatare: rughe, shampoo, parabeni, peli, cerette, abbronzatura o cellulite. Il consiglio più grande per uscire dal loop ingannevole del marketing ?

In primis bisogna farsi delle domande e non accettare tutto ciò che ci viene detto in maniera acritica. Chi c’è dietro? Chi è la fonte? Chi paga? Sono solo alcuni esempi di domanda che il consumatore deve porsi. Un ultimo consiglio che mi sento di dare è di richiedere le prove. Prendiamo l’esempio dell’azienda che cerca di vendere un prodotto anticellulite. Quali sono i dati dell’efficacia di ciò che si afferma? Sulla base di quali prove è efficace il prodotto?

Bisogna richiedere prove non solo verso chi fa pubblicità ma anche nei confronti delle aziende che, essendo oggi giorno quasi tutte sui social, sono facilmente raggiungibili. Chiediamo conto di ciò che affermano.

Cerchiamo di diventare dei consumatori un po’ più esigenti e consapevoli. 

La ringrazio

 

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