Difficile inquadrarlo in un’unica categoria, sfugge ad ogni tipo di definizione: poeta indiscusso, rockettaro dall’animo folk, portavoce di una generazione di utopie. È Bob Dylan, all’anagrafe Robert Allen Zimmerman, genio enigmatico e sfuggente.
Nasce il 24 maggio del 1941 a Duluth, Minnesota (USA). Mostra fin da piccolissimo una smisurata passione per la musica e gli stumenti musicali, a sei anni inizia a studiare pianoforte e a fare pratica su una chitarra acquistata per corrispondenza. Era il periodo del trasferimento al confine con il Canada, a Hibbing.
Trascorre la sua adolescenza a Minneapolis, dove frequenta l’Università e i circoli dei giovani intellettuali della New Left iniziando ad esibirsi in pubblico con la sua prima band. Dei suoi approfondimenti culturali, resta colpito dalla lettura della biografia di Woody Guthrie, motivo per cui quando i luoghi della sua infanzia iniziano ad essere troppo provinciali per la sua crescita personale e da musicista, decide di trasferirsi a New York.
Il rock ‘n’ roll, scoperto ai tempi della band del liceo, sembra non interessargli più. Ci sono delle sonorità ancestrali, fuse a dei misteri di una tradizione senza tempo, da ricercare nella sincerità dell’acustica dell’armonica. Ed è proprio l’armonica lo strumento da cui Bob Dylan diventa inseparabile, tanto da perfezionarne la tecnica ed iniziare ad esibirsi nelle coffee house di Minneapolis e poi nei locali di striptease di Denver. Acquisita una certa sicurezza sul palco, pieno di sogni e grandi ambizioni, decide che la sua prossima tappa è la Grande Mela.
Dapprima le sue esibizioni sui palchi newyorchesi sono di accompagnamento con l’armonica ad altri musicisti, ma dopo poco il suo nome inizia a comparire da solo sui cartelloni dei locali di punta, come il Caffè Lena, frequentati da artisti alla portata di Dave Van Ronk, pioniere della musica folk statunitense e grande conoscitore del jazz e del blues. L’artista strinse subito amicizia con Bob Dylan subito dopo il suo arrivo a New York, fino a condividere un appartamento nel Greenwich Village.
Ma è al Gerde’s Folk City che il giovanissimo Bob Dylan fa le sue prime esibizioni importanti, non solo come accompagnatore, ma anche come solista, tra il pubblico c’è anche il critico del New York Times Robert Shelton, che nel 1961 pubblica una recensione che sintetizza perfettamente le intenzioni del giovane artista, voce graffiante che pervade con intensità le sue canzoni. Ne vengono, quindi, esaltate le caratteristiche distintive, iniziando a non essere più considerato semplicemente un accompagnatore.
Ad invaghirsi della sua voce è poi il talent scout e produttore John Hammond, grazie al quale Bob Dylan firma un contratto con la Columbia Records e nel novembre del 1961 registra in due soli giorni il suo primo disco: una raccolta di classici folk e blues, che porta proprio il suo nome.
È il suo dualismo tra rock e folk che colpisce il pubblico, la duttilità della voce e la dimensione poetica in cui ci si immerge con i suoi brani.
I temi inizialmente trattati ricalcano l’immaginario collettivo legato allo stile folk: vagabondi, treni e autostrade, la morte e pochi brani autobiografici. È grazie alla liaison con Suze Rotolo, attivista per i diritti civili, che Dylan si immerge nel mondo politico, ne sente parlare, ne frequenta gli ambienti, ne assorbe ogni parola e ne trae ispirazione per i suoi nuovi brani, allontanandosi dall’immagine del semplice interprete di canzoni folk del passato.
È il caso della satirica “Talkin’ John Birch Paranoid Blues”, prende di mira una società di estrema destra, antisemita, fortemente anticomunista, omofoba.
Nonostante la Società John Birch fosse formalmente condannata da quasi tutte le forze politiche USA, era abbastanza potente da impedire a Bob Dylan di cantare questa canzone in TV. Come accadde negli studi dell’emittente televisiva CBS, quando poco prima della messa in onda, i rappresentanti della rete televisiva comunicano a Dylan che non potrà eseguire “Talkin’ John Birch Paranoid Blues”, per timore di azioni legali da parte della società. A questo punto lascia gli studi, rifiutandosi di eseguire altri brani sostitutivi. È anche grazie a questo gesto che accresce, per Bob Dylan, la fama di promotore della controcultura americana.
Arriva poi il tempo di “Blowin’ In The Wind” e del grande pubblico, del sodalizio, non solo vocale, con la regina del folk revival, Joan Baez, e del suo terzo album.
A questo seguono una serie di esibizioni pubbliche in cui Dylan inizia a variare il suo repertorio, inserendo anche nuovi brani inediti, come “Mr. Tambourine Man”, destinata poi a diventare una delle sue composizioni più amate, e la leggendaria “Like A Rolling Stone”.
I suoi testi colpiscono in profondità i cuori dei giovani ascoltatori perché si sintonizzano sulle tematiche care alla generazione che si preparava a fare il ’68. Poco romanticismo, poco amore, ma molta concretezza e amarezza, ma soprattutto attenzione ai problemi sociali più scottanti.
La produzione artistica di Bob Dylan inizia ad essere irrefrenabile, ogni volta che il pubblico pensava di essere riuscito a dargli una definizione, a chiuderlo in una categoria, lui ne sfuggiva sbalordendo tutti.
E sfuggire, anche dalle cerimonie pubbliche, è quello che a Dylan riesce bene tutt’ora. Ultimo tra gli episodi rilevanti è il Premio Nobel per la Letteratura, ricevuto nel 2016, e mai ritirato.
In pieno stile dylaniano, ci stupisce ancora, e noi siamo pronti ad accogliere ogni suo cambio di rotta, seppur improvviso.
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