Quante volte avete avuto la sensazione di andare in pezzi? La vita ha il potere di metterci di fronte a ostacoli che possono mandarci in frantumi, lasciandoci ferite nel corpo e nell’anima che non possiamo tralasciare e che ci segnano per sempre.
Ma siamo sicuri che questo andare in pezzi sia per forza negativo?
Non lo è secondo la filosofia orientale del Kintsugi. Letteralmente, potremmo tradurre questo termine con “riparare con l’oro”, ed è una traduzione che possiamo prendere come indice di un’attività che, applicata alla vita reale, potrebbe spingerci a rivalutare le nostre ferite.
Il Kintsugi ha origine nel Giappone del 1400, quando uno shogun, Yoshimasa, chiese a degli artigiani ceramisti di riparare delle tazze che utilizzava per il rito del tè. Gli artigini utilizzarono una particolare lacca oro, nota come urushi, ricostruendo le preziose tazze.
Da questa operazione nasce anche il termine, dato che in giapponese kin è l’oro e tsugi significa ricongiungere. Con lo svilupparsi di questa arte vennero utilizzati anche altri materiali, come oro e argento, trasformando la richiesta dello shogun in una vera e propria filosofia.
In questa evoluzione dello Kintsugi si è arrivati ad elaborare il concetto di un maggior valore degli oggetti riparati, che anziché venir gettati in quanto inservibili possono trovare una nuova vita tramite questa particolare arte.
L’applicazione di questa arte alla vita quotidiana è un insegnamento importante. Spesso siamo portati a vedere i momenti di crisi, l’andare in pezzi come dicevamo prima, come un momento di fallimento, vedendone soltanto l’aspetto negativo. Questi attimi di fragilità possono divenire, invece, un buon punto di partenza per rinsaldare la nostra anima e il nostro carattere, spingendoci ad interrogarci su noi stessi e trovare una nuova forza da cui trarre un rinnovato vigore.
Anziché vedere le cicatrici come ricordi di debolezza e fragilità, applicano la filosofia del Kintsugi alla nostra quotidiniatà possiamo rivedere queste sconfitte della vita come momenti di riflessione e rinascita, assaporandone anche il valore non solo terapeutico ma anche didattico che possono rivestire nella nostra crescita personale. In un certo senso, si rientra nella teoria di Nietzche secondo cui ciò che non uccide, fortifica, ribandendo come la resilienza sia una dote da ricercare. Rialzarsi dopo le cadute che la vita ci riserva e trovare una nuova forza per continuare il nostro cammino è il segreto per vivere la nostra esistenza passivamente, vittime di eventi spesso dolorosi o ardui, ma vivendo come protagonisti, cercando in ogni istante di far tesoro di ogni esperienza, anche e soprattutto da quelle negative, per trovare una nuova definizione di noi stessi.
Il Kitsunigi insegna proprio a valorizzare queste cicatrici, che se ad un primo impatto possono sembrare simboli di fragilità e debolezze, in realtà impreziosiscono la nostra anima, ribaltando il concetto di imperfezione come un difetto, rendendola al contrario un simbolo di forza e nuova bellezza in un’accezione completamente nuova.
Questa valenza del Kitsunigi ha trovato anche delle applicazioni mediche, tramite l’introduzione della filosofia alla base di questa arte nella psicologia. Il coltivare la pazienza nel cercare di ricostruire un oggetto è una metafora, a ben vedere, del lungo lavoro necessario per dare nuovamente unità ai frammenti di un’anima sofferente. Il lavoro del ceramista dedito al Kintusnigi non è differente dall’uomo in ambasce, entrambi devono trovare un nuovo schema in cui adattare i pezzi da rinsaldare, andando in cerca di un equilibrio che unisca il passato e il futuro, in cui anche le cicatrici dei dolori vissuti diventino parte integrante della ritrovata bellezza.
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