La figura del femminiello è sempre stata fortemente radicata nel tessuto sociale della città di Napoli, in particolar modo nel centro storico e nei quartieri spagnoli, cuore pulsante del folklore partenopeo.
La cultura popolare partenopea è anticamente legata a quella greca, motivo per cui è possibile riscontrare delle similitudini nei rituali pagani, nonché della sacralità che alcune figure ricoprono a livello sociale e culturale.
Se per gli antichi greci e romani l’ermafrodito era un personaggio sacro, in quanto figlio della bellezza e dell’amore, quindi simbolo della perfezione della natura, per la cultura partenopea a ricoprire questo ruolo è il femminiello: un uomo con movenze e atteggiamenti marcatamente femminili.
Il dualismo tra sacro e profano, legato al personaggio stesso, ha origini antiche ed è legato al culto della Madonna di Montevergine, addirittura antecedente alla creazione del santuario che sorge a Mercogliano, in provincia di Avellino, dove a cadenza annuale si celebra il rito della juta dei femminielli.
L’origine del culto risale al 1256, anno in cui si racconta che due omosessuali furono cacciati dalle mura della città per atti osceni e furono portati sul monte Partenio, appunto nella località di Montevergine, per farli morire di fame e freddo. La leggenda narra che la Madonna, provvidenzialmente, intervenne liberando i due amanti legati ad un albero da lastre di ghiaccio. Da allora, nel giorno della Candelora, ossia ogni 2 febbraio, i femminielli si recano in pellegrinaggio per chiedere la benedizione della Madonna nera di Montevergine, anche detta Mamma Schiavona.
Un altro rito pagano che coinvolge la figura del femminiello, e che trova anche spazio in letteratura e in cinematografia, è quello della Figliata dei femminielli. Il rituale della figliata, come lo stesso nome lascia intuire, imita il suggestivo momento del parto. La magia dell’emulazione porta i protagonisti a far sentire le sofferenze e le doglie, fino ad arrivare al momento più importante: dalle cosce del femminiello esce un bambolotto di pezza, simbolo di nuova vita.

Fotogramma della pellicola “Napoli Velata”
Nel romanzo di Curzio Malaparte, “La pelle”, il momento della figliata è descritto con dovizia di particolari. Così come il regista turco Ferzan Ozpetek, nella pellicola di “Napoli Velata” ha dedicato una lunga scena alla simulazione delle doglie del parto di un femminiello al ritmo di un’antica nenia.
Queste pratiche ancestrali sono state assimilate dal folklore partenopeo, tanto che non vi è discriminazione o ghettizzazione per la figura del femminiello, ma al contrario si dona sacralità, fino ad arrivare all’assegnazione di un ruolo centrale nelle manifestazioni popolari.
Una delle manifestazioni tradizionali in cui il femminiello ricopre un ruolo centrale, legato anche alla scaramanzia, elemento cardine della cultura partenopea, è la tombola Vajassa(scostumata, ndr). Durante questa cerimonia è deputato all’estrazione del numero come portafortuna nella buona riuscita del gioco. Il compito è quello di estrarre e commentare i numeri, raccontando storie e aneddoti in cui si fonde sacro e profano.
Pensare alla figura del femminiello come un transessuale, è riduttivo. La stessa etimologia della parola “fémmina”, in latino con il duplice significato di colei che allatta, rimanda alla cura della prole, e rafforza la carica simbolica dei riti tradizionali di cui i femminielli sono protagonisti.
Nonostante la figura del femminiello sia socialmente accettata ed integrata nel tessuto cittadino, vivere il proprio essere, non rinunciando alla propria libertà di espressione, non è affatto semplice, soprattutto in un paese che ancora stenta a riconoscere i diritti della comunità LGBTQ.
Ed è una continua lotta identitaria quella che i femminielli di Napoli, ancora oggi, continuano a vivere. Storie estreme, fatte anche di prostituzione e abnegazione, di continue sfide per la personale trasformazione e per il raggiungimento di un’indipendenza, non solo economica.
È il caso di Tarantina, diventata icona dei Quartieri Spagnoli, che ripudiata dalla famiglia di origine scelse proprio la città partenopea come suo rifugio, come sua casa.
A lei è stato dedicato un murales, nei vicoli di Montecalvario, precisamente sulla parete esterna del Palazzetto Urban, dall’artista madonnaro Vittorio Valiante, intitolato Tarantina Taran e realizzato con l’aiuto dei ragazzi dei Quartieri nell’ambito del progetto St.ar.t –Street art comunità e territorio.
Di recente l’opera è stata sfregiata e ricoperta dalla scritta offensiva “Non è Napoli”, il vile attacco è di matrice omofoba, un atto privo di senso.
Vandalismo fine a se stesso, nei confronti di chi per Napoli continua a nutrire affetto, considerandola casa. L’opera sarà restaurata il prima possibile, intanto l’autore ha simbolicamente realizzato uno stencil con il volto della Tarantina, per coprire la parte sfregiata.
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