Arianna Gambaccini, marchigiana ma da anni trapiantata a Giovinazzo, ha votato la sua vita all’Arte.
Arianna è un’attrice intensa, di quelle in grado di giocare in sottrazione attraverso una mimica così sorprendente da non sapere se a definire per prima le caratteristiche di un suo personaggio sia il suono vivo della sua risata o la lucentezza dei suoi occhi grandi.
Una carriera artistica che non solamente già abbraccia collaborazioni notabili del palcoscenico nostrano (Teatro Ermitage, Teatro Kismet) e della celluloide (“La Fuitina” di Andrea Simonetti, “La giornata” di Pippo Mezzapesa, ad esempio) ma esperienze registiche e di sceneggiatura (“Arianna nel labirinto”, “Mettiamo che”, “Come quando fuori piove”) e laboratori come insegnante di teatro.
Si percepisce, insomma, nel lavoro di Arianna, una ricerca curiosa negli interstizi stranieri dell’esistenza, un’esplorazione costante degli universi emozionali.
Arianna, quando e com’è nata la sua storia d’amore con il Teatro?
Da piccola… da veramente molto piccola. Sono cresciuta nelle campagne marchigiane, sopperivo al silenzio di quei posti immersi nella natura con l’immaginazione: inventavo di tutto, parlavo con tutto: dai pupazzi, alle rane, alle farfalle, agli alberi e addirittura con l’invisibile… e se vedevo un film che mi piaceva poi mettevo le mie povere bambole a subire tutta la storia, che rifacevo, impersonando tutti i personaggi, in camera… I miei genitori portavano me e mia sorella al cinema, al teatro, ai concerti… Ho visto da piccolissima Giuffrè, Iannuzzo, Bramieri, Merlini… Ho avuto la fortuna di vedere quello che per me è e rimarrà il solo e unico vero trio comico: Lopez Solenghi e Marchesini…
Ho visto Alessandro Benvenuti nel suo “Benvenuti in casa Gori”, Maria Cassi… e poi il cinema, soprattutto fantasy di quegli anni… E nel silenzio della cameretta rifacevo tutto… All’asilo volevo impersonare tutti i ruoli degli spettacolini per le varie ricorrenze: le maestre erano allegramente esasperate da me. Ma non capivo cosa “fosse”. Per me rimaneva un gioco. In prima media le “prime avvisaglie”: mi viene regalato un libro di narrativa dove la protagonista studia recitazione… Tenevo il libro nascosto sotto quello ufficiale durante l’ora di inglese e , di nascosto, scrivevo le didascalie di come avrei dovuto dire le sue frasi… Poi mio padre, una sera di Gennaio, (ancora me lo ricordo, credo che fosse il 2 gennaio del 1991) , mi “mette “ davanti al televisore dicendo : “Arianna guarda questo, ti piacerà, ne sono sicuro”. Su rai 2 davano “Aggiungi un posto a tavola”.
L’ho guardato tutto. Lì ho capito cos’era quello che volevo fare: volevo ridare quello che avevo provato io, volevo ripassare l’emozione che quel cast, in una registrazione, ma comunque dal vivo, senza finzioni cinematografiche, aveva dato a me. Ecco , lì è stato chiaro che quello che “mi chiamava” , quello che volevo fare aveva un nome: Teatro.
Dalle Marche alla Puglia, lei sei definita “un’orgogliosa emigrante al contrario”.
Com’è radicare la propria esperienza attoriale nel Meridione e qual è secondo lei lo stato di salute attuale del Teatro in Puglia?
Amo molto il sud… tutto. Mi sembra tutto molto più franco. Più vicino. Radicare la mia esperienza attoriale nel Meridione, e più precisamente in Puglia, è una fortuna per me. È una fortuna essere qui. Una fortuna vivere in un posto dove c’è tanto talento, tanto teatro. Ho potuto vedere di tutto. Ho proseguito la mia formazione. Ho conosciuto la grande capacità imprenditoriale dello spettacolo in Puglia. E grande, grandissima professionalità. Ovvio, non è tutto rosa e fiori. Appena arrivata (circa 10 anni fa ) c’era ancora una spinta incredibile, che forse negli anni è venuta un po’ meno, ma anche giustamente, perché c’è un ricambio generazionale. Ma per me rimane un’esperienza positiva.
E’ stata la protagonista del premiatissimo corto “La giornata” di Pippo Mezzapesa, una denuncia del caporalato tramite il dramma di Paola Clemente, una bracciante morta di fatica nel luglio del 2015. Ha recitato in “Farfalle” che ripercorre le difficoltà quotidiane sotto il regime trujillista e tratto dal libro di Francesco Minervini è invece “Sola contro la mafia”, su di una testimone di giustizia.
Quanto è importante per lei, oggi, portare in scena storie di donne e di denuncia sociale?
Il teatro è sempre uno specchio della società , anche nei suoi aspetti più comici, anche quando ufficialmente non “denuncia” qualcosa.
Poi certo che poi ci sono storie più forti. Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di essere scelta per interpretare donne che rendono forti queste storie. In “farfalle” interpreto insieme alle colleghe e amiche Ilaria Cangialosi (che ne cura testo e regia), Sara Bevilacqua e Angela Iurilli, le sorelle Mirabal che guidarono un intero paese alla rivoluzione contro il regime di di Truijo. Pippo Mezzapesa mi ha regalato la partecipazione a “La Giornata”. Poi , grazie a Vito d’Ingeo che mi ha scelta per interpretare il testo tratto dal libro “Non la picchiare così” di Francesco Minervini, ho conosciuto la storia di “Maria”, la testimone di giustizia grazie alla quale, negli anni 90, fu arrestato un intero clan.
Una donna di una forza e determinazione senza pari. Una donna a cui dobbiamo tutti tantissimo….. Io sono grata per essere stata scelta per queste parti. Non so che significato dare a questo, un po’ credo nel destino: forse doveva semplicemente essere così… Ma sicuramente mi sento piccola in confronto a queste donne immense che con le loro vite hanno cercato in tutti i modi di garantire a se stesse e agli altri la libertà. Viviamo in un momento storico estremamente difficile, dove il dualismo (uomini /donne, magro/grasso, bianco/nero) regna imperante: le donne sono nella posizione di cambiare la società: sono creatrici ed educatrici. Incarnano il potere del mondo nel creare la pace. Perché sono creatrici del maschile e del femminile… di tutti gli aspetti dell’esistenza. Non a caso si parla di “madre terra”, “madre natura”.
Da regista, “Alice nel buio” è stata invece una sua reinterpretazione onirica del capolavoro di Carroll. Non solamente teatro di denuncia ma teatro per ragazzi di sogno e fantasia.
Come cambia la sua esperienza da essere diretta a dirigere?
“Alice nel Buio “ è un testo che ho riscritto per un laboratorio. Era , più precisamente, il testo di uno spettacolo di fine laboratorio. Scrivo per i ragazzi da molto tempo, in realtà scrivo da sempre. Ho integrato la mia attività di Attrice con quella di “Tituc” di teatro. Tituc è il nome che un gruppo di bambini ha scelto per me: stavamo, insieme, ragionando sul fatto che “maestra” o “insegnante” non andavano bene come nomi per ciò che facevamo in classe: “Maestra” troppo importante… “Insegnante” troppo serio. Tituc. Come tale (anche se credo di essere arrivata alla fine di questo tipo di esperienza, ormai “titucco” da circa 16 anni) credo che la fantasia e la creatività siano tutto. Credo che sia un dovere degli adulti proteggere l’ “immaginazione” . Immaginare: in mago me agere “lascio agire il mago che è in me”… E’ il dovere dell’adulto far crescere nei bambini e potenziare la loro immaginazione. Solo “immaginare” una possibilità ci aiuta a crearla. Come diceva W. Disney : se puoi sognarlo (immaginarlo) puoi farlo!
La differenza tra dirigere e essere diretta per me? Che nel dirigere gli altri sono la sorpresa. Nell’essere diretta, se ti lasci abbastanza andare, se ti fidi e ti affidi totalmente a chi dirige, puoi andare anche in tue zone sconosciute. E imparare una nuova cosa di te. Nello spettacolo “Harem : le donne di Federico” scritto e diretto da Carla de Girolamo che porto in scena con lei e Annalaura D’Ecclesia, interpreto la balia dello Svevo. Una parte molto comica. Era difficile , dopo aver fatto uno spettacolo estremamente drammatico come “Sola contro la mafia” recuperare quelle corde… Ecco, questo è uno dei casi in cui “essere diretta” mi ha fatto fa scoprire e riappropriare di un pezzettino in più di me stessa.
“Certi giorni”, da lei scritto e diretto, è la storia di una donna che racconta anche della sua felicità borghese e provinciale ritrovata nelle piccole cose quotidiane (dalla televisione satellitare a pagamento, all’aria soleggiata del Sud e a degli angioletti di Thun da spolverare). Che differenza di approccio recitativo c’è in un monologo rispetto ad uno spettacolo corale?
“Certi Giorni” è un testo che nasce da un laboratorio con Michele Sinisi… uno spettacolo che ha una cadenza dialettale marchigiana, uno “scherzo” drammatico in cui, per esorcizzarli , prendo in giro tutti i “come dovrebbe essere una donna” con cui sono cresciuta, tutti i dictat sociali che una donna si sente imporre. Un modo per poter dire “c’ho provato ad essere così, ma non ce l’ho fatta” . E un modo per raccontare la vita di tutti giorni che si macchia di cronaca nera, dal punto di vista di chi, nella vita, ha scelto la zona comfort della massa. Di chi è colpevole perché poteva fare qualcosa e non ha fatto nulla.
In un lavoro corale c’è la squadra, i compagni, il sostegno. In un monologo sei solo, nel monologo ti spinge la motivazione del personaggio a ripercorrere tutti i pensieri, gli obbiettivi, la storia. Il personaggio è solo con il proprio dolore, ed è questa la molla che lo spinge a parlare, a lungo, con il pubblico. In un lavoro corale, hai sempre qualcuno dietro le quinte con cui condividere la forza e l’ansia. La felicità e la dedizione. Le lacrime, gli applausi.
In “L’ Onorevole” lei è diretta e affiancata in scena da Michele Cipriani, suo marito. Il vostro è un legame d’arte e amicizia. Com’è lavorare col proprio compagno?
Ne “L’Onorevole” (scritto a 4 mani da Paola Fresa e Michele Cipriani) ci co-dirigiamo. Questo ci dà l’opportunità di vedere ciò che non si vede da soli, aiutati dallo sguardo dell’altro, che alle volte fa luce anche negli angoli più bui. Lavorare col proprio compagno è il regalo più bello che la vita potesse farmi. Una continua sensazione di orgoglio, stima, sfida, scornate, famiglia e casa. La pace in un abbraccio. L’adrenalina in una stretta di mano prima di andare in scena, la completezza più totale.
Che consigli darebbe ad un giovane ragazzo che desidera approcciarsi all’Arte teatrale?
Di studiare, di non arrendersi, di non bruciare le tappe, di non affidarsi ai talent (che purtroppo alle volte sono “ il gatto e la volpe” dello spettacolo in Italia), di non credere nei soldi facili, nella fama facile, ma neanche di credere a coloro che dicono “è troppo difficile”… una scelta è una scelta, che tu scelga di fare il medico o l’attore, non è necessario appesantire tutto il viaggio verso la meta; di non permettere a nessuno di metterlo in una “scatola, con un etichetta sopra. Se è destino che debba fare l’attore, se ci crederà fino in fondo, lo farà. Come diceva qualcuno “la vita è troppo breve per passarla a far contenti gli altri”.
Se potesse incontrare un artista su di una fumante tazza di caffè chi vorrebbe che fosse? E perché?
Uno solo?
Barbara Streisand. Le vorrei dire come mi ha salvato la sua voce, e in quante storie mi ha accompagnato….e altre duemila cose.
Michael Ende. Devo a lui tutte le storie con cui ho riempito i vuoti. Abbracciarlo e dirgli grazie. Che il teatro è la mia “Fantàsia”, che non ho ancora trovato il modo per tornare. Che “fa ciò che vuoi” è la frase con cui mi impongo di tornare a me stessa. E altre duemila cose.
Ma faccio fatica a fermarmi qui.
Vorrei incontrare mia nonna Annetta, era un’artista della risata: quando rideva lei rideva il mondo intorno. Vorrei chiederle se è orgogliosa di me. Se posso fare meglio. Se potesse abbracciarmi un po’.
Mariagrazia Veccaro
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