Keith Haring è senza dubbio uno degli esponenti più singolari del graffitismo di frontiera. La sua arte dirompente, dissacrante e divertente al tempo stesso, caratterizzata da quella inconfondibile linea corposa, fatta di “radiant-boys”, omini colorati e gioiosi in movimento, di neonati, di cuori luminosi e pulsanti, è il simbolo riconoscibile della generazione americana degli anni Ottanta, cresciuta in piena era nucleare e nutritasi quasi esclusivamente di tv e fumetti.
Nato il 4 maggio del 1958 a Reading (Pennsylvania), Haring dimostra immediatamente la sua evidente e spiccata propensione per il disegno e le arti grafiche, grazie anche agli incoraggiamenti del padre Allen, disegnatore di cartoni animati e alla passione per i personaggi dei fumetti di Walt Disney e di Dr. Seuss.
Dopo una breve parentesi nel mondo della grafica pubblicitaria, (si iscrisse per volere dei genitori all’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh ndr), e dopo esser rimasto folgorato da una mostra di Pierre Alechinsky, decise di trasferirsi a New York dove alla School of Visual Art incontrò e frequentò, Joseph Kossuth, Keith Sonnier e un altro giovane e promettente ribelle: Jean Michel Basquiat.
Haring tuttavia, non proseguì gli studi alla School of Visual Art, ma decise di esprimere la propria identità artistica immergendosi nella strada, nella realtà urbana offerta dalla Grande Mela, ricca di stimoli e spunti.
Un vero e proprio laboratorio pubblico dove sperimentare le infinite soluzioni grafiche.
«Un giorno, viaggiando in metropolitana, ho visto un pannello che doveva contenere un messaggio pubblicitario. Ho capito subito che quello era lo spazio più appropriato per disegnare. Sono risalito in strada fino ad una cartoleria e ho comprato una confezione di gessetti bianchi, sono tornato in metropolitana e ho fatto un disegno su quel pannello. Era perfetto, soffice su carta nera; il gesso vi disegnava sopra con estrema facilità.» www.haring.com
E così quel ragazzo simpatico, alto, con gli occhiali tondi e i capelli ricci, pieno di energia, esplose con la sua arte, pittura e scultura, passando dalle stazioni della metropolitana e i muri delle periferie di New York, alle esposizioni in tutto il mondo, fino ad inaugurare nel 1986, a Soho, il Pop Shop, un punto vendita di gadget e magliette che raffigurano le sue opere, mettendo così a disposizione di tutti, di un pubblico sempre più ampio, la sua arte.
Tutto in un decennio, dal 1980 fino alla sua morte, avvenuta nel 1990.
«L’arte deve essere per tutti e dappertutto».
Nonostante la sua prematura scomparsa, Haring è riuscito a creare un nuovo linguaggio visivo, raccontando con estrema facilità, il suo personale “mondo poetico” così come lo assorbe e lo vive e lo restituisce con l’immediatezza e la purezza dei propri segni.
Il genio del metrò ha dato voce, con la sua arte, a temi sociali profondi, impegnativi e di forte impatto: come la droga che condannava fermamente, la discriminazione verso le minoranze, la minaccia nucleare, l’alienazione giovanile, l’arroganza del potere. E l’Aids che New York vive, drammaticamente in quegli anni. Un virus, definito in molti ambienti come “la punizione divina” e la “peste dei gay”, un mostro che in pochi anni mieterà migliaia di vittime.
“Un raro cancro osservato in 41 omosessuali”
(New York Times del 3 luglio 1981)
Nel 1988 all’artista viene diagnosticato l’AIDS e l’anno successivo aprirà la Keith Haring Foundation, per la prevenzione e sensibilizzazione alla malattia che lo colpirà a soli trent’anni, nel 1990. Instancabile fino all’ultimo.
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