La prima Università della terza età nasce nel 1975 a Torino per accogliere e motivare le persone escluse dal ciclo produttivo, in genere gli anziani, e trasformare la loro forza-lavoro in forza-cultura.
Il progetto si è dimostrato, da subito, capace di precorrere i tempi e di adattarsi ai mutamenti epocali. Chi sono gli anziani del ventunesimo secolo? Un’indagine presentata alla London School of Economics nel 2010, condotta intervistando oltre 12mila over 65 in diversi Paesi, evidenzia che due ultrasessantacinquenni italiani su tre dichiarano di non sentirsi affatto «anziani». E non lo sono, perché la soglia della terza età si è di fatto spostata dai 65 ai 75 anni, a provarlo sono le loro condizioni di salute e il benessere psicologico.
Cambiano gli anziani, chiamiamoli seniors, e cambia anche il loro modo di pensarsi nel mondo. In questo senso l’UTE sembra una delle più silenti ed efficaci innovazioni introdotte, negli ultimi decenni, nelle politiche sociali. I suoi punti di forza sono: la centralità dell’apprendimento e il confronto intergenerazionale, le chiavi di volta di un invecchiamento attivo.
“Cercare, ricevere, diffondere” [informazioni e idee] sono le tre parole, contenute nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948, che esprimono al meglio la necessità di affermare il diritto alla conoscenza in tutte le sue forme.
Ecco, se pensiamo a un centro per anziani le prime tre parole che ci vengono in mente sono “carte-bocce-ballo” e il problema non è che non siano contenute nella Dichiarazione Universale del ‘48 ma che riguardino solo l’aspetto ludico e aggregativo di una proposta elaborata per la quotidianità del pensionato, quasi come se egli fosse impossibilitato a fare tutto il resto. Dove sono finite l’autorealizzazione, l’acquisizione di nuove competenze, lo scambio di conoscenze? Dove sono finite le attività volte a tessere il legame dell’individuo con il mondo, a sentirsi parte di una collettività? Non sono finite. Sbirciando tra i programmi delle UTE in tutta Italia troviamo le lingue, l’informatica, il cucito, l’intreccio ma anche la fotografia, la danza, la psicanalisi, lo shiatsu; con una marcata preferenza per i laboratori artistici, i seniors si dimostrano molto interessati anche alle nuove tecnologie e alle lingue. I corsi sono spesso integrati con conferenze, incontri con autori, attività culturali quali il teatro o le visite ai centri d’interesse storico e architettonico.
Tutte occasioni queste, non solo di apprendimento, ma anche di aggregazione, condivisione, svago e infine occasioni per tessere un rapporto inter-generazionaleormai logoro a causa dell’indebolimento dei legami parentali e anche urbani, di vicinato.
L’Università della Terza Età infatti, pur essendo pensata per guidare il percorso di ognuno verso la “vecchiaia”, è aperta a tutte le età, in alcune strutture basta essere maggiorenne per accedervi, in altre è necessario aver compiuto 35 anni. In entrambi i casi si crea il terreno adatto per favorire il dialogo interculturale e generazionale grazie al quale ogni società si ridefinisce costantemente, in parte conservando, in parte rinnovando sé stessa.
Una partita importante questa che le UTE presenti in tutte le regioni italiane, continuano a condurre ogni giorno; in gioco vi è l’affermazione del diritto al pieno sviluppo della persona che investe l’intera esistenza umana.
Senior = “nuovi anziani”, persone in piena efficienza e buona forma fisica che cercano di ridefinire la propria esistenza nella libertà e nel servizio della società. Qualificate non solo da un corredo scolastico, ma dalla vita. Non si piangono addosso, sono pieni di progettualità.
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