La novità televisiva più sorprendente di questa estate è stata sicuramente la miniserie in cinque puntate Chernobyl.
Prodotta dall’HBO, ideata e scritta da Craig Mazin e diretta dallo svedese Johan Renck, la serie cerca di raccontare l’eziologia e le conseguenze di uno dei più terrificanti disastri nucleari di tutti i tempi, quello avvenuto il 26 aprile del 1986 nella centrale di V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale (all’epoca parte dell’ Unione Sovietica), a 3 km dalla città di Pryp”jat’ e 18 km da quella di Černobyl’.
Questa miniserie, basata su “Preghiera per Černobyl’“, libro del premio Nobel Svjatlana Aleksievič che ha coraggiosamente raccolto un nugolo di testimonianze dirette dei sopravvissuti al disastro nucleare, è diventata ex abrupto un cult negli indici di gradimento (è, infatti, la serie con il rating più alto nel sito Imdb) ed è anche però fonte d’ispirazione per una nuova, dannosissima moda che sta dilagando fra i social-media influencer, cioè quella di raggiungere in massa la centrale oramai spenta per scattarsi un selfie il più possibile vicino all’ epicentro del disastro.
La forza dirompente della miniserie parte in primis da una messa in scena aderente al vero, dalla certosina riproduzione della centrale che è stata ricostruita in scale e corridoi da Luke Hall nella centrale nucleare di Ingalina (Lituania), fino alla cura dei dettagli degli abiti e oggetti originali dell’epoca e poi riutilizzati per ricreare l’esatta atmosfera sovietica degli anni ’80.
Al perfezionismo della ricostruzione scenografica, si aggiunge un cast stellare dalla mostruosa bravura, partendo dalla dolente mimica di Jared Harris ( “Fringe”, “Mad Men”, “The Crown”), alla versatilità di Stellan Skarsgård (“Nymphomaniac”, “Thor: The Dark World”, “Entourage”), Emily Watson (“Gosford Park”,“Anna Karenina”, “La teoria del tutto”) e, non ultima, la giovane scoperta irlandese Jessie Buckley.
Il ritrmo narrativo della serie si muove fra flashforward sulle nefaste conseguenze delle contaminazioni del disastro nucleare ( diffusione di tumori, deformazioni ma anche sensi di colpa e manie suicide dei sopravvissuti all’orrore) e le rielaborazioni delle cause scatenanti della reazione a catena che porterà ad un aumento della temperatura fino all’esplosione del nocciolo nel quarto reattore della centrale.
La serie affonda coraggiosamente l’occhio anche sugli imbrogli burocratici ed i tentativi di depistaggio di alcuni funzionari sovietici che tentarono per giorni di mantenere segreti, sia alle popolazioni raccolte attorno alla centrale che alle altre Nazioni, i rischi di un inquinamento radioattivo globale, prima di decidersi finalmente ad alzare una “zona cuscinetto” di trenta km attorno la centrale.
Chernobyl esplora dunque le interconnessioni fra le indomabili forze centrifughe della Storia e le vite più piccole che quella Storia alla fine la fanno, dagli scienziati ai pompieri e familiari, travolti da questa tragedia atomica.
È la storia di Valery Legasov (Jared Harris), esperto di chimica atomica del Cremlino, che tentò, assieme al vice-primo ministro della commissione d’inchiesta Boris Scherbina (Stellan Skarsgård), di contenere il più possibile la catastrofe ecologica ed umana non solo attraverso le sue brillantissime abilità scientifiche ma il coraggio dell’etica di ribellarsi al Governo Sovietico rivelando, durante il processo contro gli ingegneri Fomin, Dyatlov e Bryukhanov accusati di aver causato lo scoppio, le vere cause della catastrofe ovvero non solamente errori umani di valutazione ed una scarsa cultura della sicurezza ma una combinazione di materiali grossolani e scadenti usati per la progettazione della struttura stessa.
È la storia dei compagni Akimov (Sam Troughton) e Toptunov (Robert Emms) che si spinsero fino quasi al nocciolo per aprire manualmente le pompe idrauliche credendo di poter tamponare il disastro ben consapevoli di aver firmato così la propria condanna a morte, è quella di Lyudmilla Ignatenko, una delle mogli dei pompieri che accorsero per primi per spegnere l’incendio e che poi morirono qualche settimana dopo di indicibili dolori per la stretta vicinanza alle radiazioni della grafite.
Lyudmilla, che decise amorevolmente di rimanere accanto al capezzale del giovane Vasily fino al suo ultimo spasimo, fu salvata dalla bambina che portava in grembo che raccolse nel suo corpicino tutte le radiazioni possibili.
È la storia di Ulana Khomyuk (Emily Wattson), uno dei pochissimi personaggi inventati ma poi non troppo, messo lì a rappresentare simbolicamente tutte quelle donne scienziate che aiutarono Legasov e Scherbina nei mesi successivi al disastro per escogitare più soluzioni possibili per contenere il danno.
È un saluto militare verso tutti gli eroi che corsero sul posto per evitare ai posteri i titoli di coda, non solo pompieri ma anche i minatori di Tula e Donbass che scavarono a mani nude un tunnel per creare una sorta di “sala” sotto lo strato di cemento, grande abbastanza per lo scambiatore di calore.
Eroiche furono pure quelle vecchie ucraine che scelsero di non abbandonare Pryp”jat’ durante l’evacuazione per morire fra la più familiare terra come innocenti erano stati quegli animali uccisi da squadroni militari per timore che potessero essere infetti.
È un omaggio anche a tutte quelle persone che, secondo la stima nel 2005 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, son state circa 4000 a morire dolorosamente, senza contare gli ettari di intere foreste abbattute per evitare il contagio.
Chernobyl è la miniserie sulla nostra Storia e sul monito di non ripeterla ancora per non dover più danzare, come una delle scene più poetiche e dirompenti dello show, nel pulviscono tossico su di un ponte.
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