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INTERVISTA AD EMANUELA COCCO, MULTIFORME AUTRICE

Emanuela Cocco è una autrice romana in grado di colorare, con la sua penna, qualsiasi spazio espressivo con il quale si interfaccia, da quello teatrale a quello televisivo.

Emanuela sembra anche una di quelle donne che vorresti come amica, per le sue premure delicate ma mai affettate, i suoi trascinanti consigli su qualche serie ancora da vedere e un film in bianco e nero da recuperare o anche perché, semplicemente, sono rimasti in pochi quelli che, come lei, hanno una parola gentile sempre un po’ per tutti.

Per Wojtek Edizioni ha da poco pubblicato “Tu che eri ogni ragazza”, un romanzo dallo stile dinamico e fulminante sull’espiazione della vergogna e l’affrancazione dai ristagni del dolore.

“Tu che eri ogni ragazza”, Wojtek Edizioni, è il suo primo romanzo. Nel suo libro s’intrecciano due storie che hanno in comune il voler ridisegnare i contorni della propria esistenza. Com’è nata e si è sviluppata l’idea di questo suo illuminante esordio?

Avevo in mente una ragazza enorme, molto fragile ma che potesse anche incutere terrore, qualcuno quasi incapace di parlare che sta cercando di capire il mondo e di capire se stesso nel mondo. Ora che ci penso sicuramente avevo in mente la figura di Woyzeck di Büchner. Ho pensato che a un certo punto della storia la ragazza sarebbe diventata feroce, e mi interessava raccontare come accadeva. Poi avevo un uomo che ha perso la figlia e che, oltre che dal dolore, è spezzato dallo stupore che questo sia accaduto a lui, alla sua famiglia. Crediamo tutti, in fondo, che verremo risparmiati, quando capiamo che non è così è sempre tardi, è già accaduto tutto, la sorpresa è completa e così anche lo smarrimento. Anche questo lo trovo interessante. Poi ci ho messo così tanto a scriverlo che molte cose sono finite lì. La mia stanchezza verso una forma di narrazione classica mi ha fatto pensare a una struttura diversa, non volevo più scrivere storie in cui alla fine si impara dal proprio dolore e questo ci salva perché per me questa è una stronzata, non accade sempre, il più delle volte accade il contrario. E poi avevo voglia di dire un paio di cose, e per dirle come volevo dovevo costruire questa storia.

Emanuela lei ha abitato per molti anni a Roma. Qual è il rapporto con la sua città? Le sue storie sembrano inzuppate nei quadretti liquidi delle periferie romane, dal ronzio al neon dei loro bar al binario 28 della stazione Termini.

Non ho il minimo senso dell’orientamento, quindi Roma per me è un incubo, anche se alla fine la amo. Non ricordo le strade e mi perdo, però mi piace l’idea che in una città del genere è possibile essere davvero invisibili in mezzo alla gente. I posti che descrivo li descrivo perché ci ho vissuto o perché ci sono andata a lavorare. Da casa mia, dove abitavo, ci mettevo un’ora e mezza ad arrivare a Torre Maura. Andata e ritorno fanno tre ore, il tempo per farsi un’idea dello spazio che ci circonda si trova. La stazione di Cornelia al mattino, con le pozze di vomito davanti alle banchine del Cotral, le bottiglie rotte sui muretti della scuola elementare, certi giardini bui intorno a Termini, un’aria di insicurezza diffusa, di strade sporche e monumenti, di ricchezza e povertà estrema che devono convivere. La Roma che c’è nel romanzo è quella che ho notato mentre facevo altro.

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È evidente il rapporto speciale che ha con la scrittura che non sembra per lei un’esperienza aggiunta ma un elemento organico della sua costituzione. Citando un personaggio del suo libro “Ci vogliono le parole per vedere”. Come descriverebbe allora questa sua simbiosi vitale con le Parole?

In realtà vivo in simbiosi con tante altre cose molto legate alla contingenza. La scrittura è un tempo che strappo al resto, un momento che per me è una specie di privilegio. Insomma non è una sofferenza o un sacrificio, se lo fosse allora vorrei potermi torturare così il più a lungo possibile. Scrivere mi fa vedere le cose di tutti i giorni ma con una messa a fuoco migliore, le cose di fuori e anche quelle dentro di me. In questo senso è meglio di uno specchio e cerco di tenerlo pulito ogni giorno. C’è un romanzo di Derek Raymond che amo molto e il protagonista dice che vuole morire a occhi aperti. Sono d‘accordo con lui, vorrò morire così ma intanto voglio anche vivere così, per questo scrivo.

Lei ha studiato sceneggiatura per fumetto alla Scuola Internazionale di Comics, poi ha vinto le selezioni per il Corso di specializzazione per sceneggiatori Script-Rai Cinema Fiction e lì ha studiato sceneggiatura cinematografica e televisiva, per poi lavorare come critica per L’Osservatorio della Fiction e collaborare alla scrittura di molti progetti di serie televisive. Quali sono le differenze per lei, a livello stilistico ed emotivo, fra la realizzazione di una sceneggiatura televisiva e la stesura di un romanzo?

Son due linguaggi diversi e hanno le loro leggi interne. A livello emotivo, se intendi l’emozione che uno prova quando si mette a scrivere (ammesso che la provi) non credo ci sia nessuna differenza. Il resto è una questione di forma. La sceneggiatura ha un linguaggio specifico che deve dialogare con le immagini che poi daranno vita alla storia. Ora che ci penso nel caso della sceneggiatura televisiva, se vivi in Italia una differenza nelle emozioni c’è sicuramente. Per quanto mi riguarda: noia, frustrazione, voglia di gettare tutto quello che scrivevo dalla finestra o di dargli fuoco. La scrittura seriale in Italia, tranne rari casi, è qualcosa che mi lascia sempre sbalordita per la sua mediocrità, che poi la colpa di questa mediocrità non sia da imputare a chi la scrive è ormai un vecchio discorso. Nel romanzo tu hai la responsabilità completa della tua visione, questo cambia tutto, puoi sperimentare come non mai, quando scrivi puoi farlo, poi la pubblicazione è un altro discorso ancora.

Ho trovato interessante una sua affermazione: “il più delle cose che so le ho studiate da me, le altre me le ha insegnate il lavoro”. Come si fa da autodidatti ad affinare così splendidamente le proprie capacità critiche?

Non so se lo ho affinate così bene, ci lavoro, come tutti, ma per rispondere dico che si fa come dice Leopardi, cioè imparando a assuefarsi alla scrittura, ad attendere alla scrittura per non incorrere nel rischio di voler esprimere le proprie idee senza quello che lui chiama l’abito dell’applicazione e del fissare la mente. Insomma, è una grande banalità quella che sto per dire ma è la sola cosa che funziona: si lavora finché non ci si abitua a quel lavoro che è una forma di pensiero, ci si allena per acquisire agilità di pensiero e abilità nel trasmetterlo agli altri, senza il lavoro non si combina nulla.

Cura per la rivista “L’irrequieto” la rubrica di analisi letteraria “Esplorazioni” e si dedica al contempo, con lo stesso rigore professionale e una particolare delicatezza, al suo blog letterario “Congetture su Jackob”. Secondo lei qual è lo stato di salute della Letteratura, oggi? E quali sono gli autori contemporanei indispensabili che consiglierebbe?

Non so rispondere a nessuna domanda sullo stato di salute di qualcosa o qualcuno, non so neanche bene il mio. Voglio dire che io non posso saperne nulla, il mio punto di vista è ristretto alla mia esperienza personale indicativa di nulla, quindi posso solo dire di aver letto,ultimamente, ottimi romanzi, romanzi che hanno carattere, una lingua e una struttura interessante, nei quali si distingue la voce originale dell’autore. Penso a “Sacrificio” di Andrea Carraro o a “Un marito” di Michele Vaccari, all’ultimo romanzo di Davide Morganti “Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato” o all’esordio di Alfredo Zucchi “La bomba voyeur” e di Sara Mazzini con “Centinaia di inverni”. Poi sono molto curiosa di leggere l’ultimo romanzo di Matteo Meschiari “L’ora del mondo” e aspetto con gioia l’esordio di Veronica Galletta. Di alcuni di questi romanzi ho già scritto e degli altri scriverò. Il blog è un semplice inventario delle letture che sono entrate a far parte del mio immaginario ma sull’Irrequieto posso dedicarmi all’analisi, che è una cosa che mi appassiona da sempre. Ecco di molti romanzi non c’è nulla da dire dopo averli letti, quelli che mi piacciono hanno sempre un discorso sotterraneo che vale la pena di esplorare. Poi seguo molto le riviste, Verde e Crapula, in particolare, dove scrivono autori che mi piacciono e che non vedo l’ora di trovare in libreria. Indispensabili per chiunque non saprei, per me indispensabili sono i racconti e i romanzi di Alberto Laiseca, indispensabile è da sempre “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin e anche tutto quello che ha scritto Heinrich von Kleist, o le poesie di Elio Pagliarani, i film di Fassbinder.

 

Recentemente ha collaborato con il progetto di “Donne Difettose” portando al festival Marea Noir un Workshop intitolato “Donne criminali” dedicato alla figura della donna nel cinema classico americano e in letteratura. Posso chiederle da dove nasce questa sua fascinazione per la femme fatale del noir?

Le “Donne Difettose” sono fantastiche, un gruppo che mette in piedi riflessioni contro il racconto stereotipato della donna e lo fa in diversi modi, con il blog, con la rivista e anche con un festival come Marea noir, quasi tutto al femminile, in cui si parla in modo libero e interessante di letteratura e cinema di genere. È stato bello ragionare sul noir e commentare sequenze da vecchi film come “Eva contro Eva”, “Ombre malesi”, e il magistrale “ La fiamma del peccato”, parlare di come questi personaggi erano raccontati attraverso la luce, i piani di ripresa, a come la loro filosofia viveva nell’immagine, facendo correre insieme la trama e una visione del mondo nello spazio di una sola inquadratura, di un primo piano sui loro volti così seducenti e pericolosi. Amo le femmine del noir da sempre. Mi piacciono per la loro bellezza fuori categoria, la rapacità, la determinazione che impiegano nella battaglia sbagliata, mi piacciono perché sono personaggi archetipici, vasi di Pandora che contengono tutto quello che è dolce e quello che è velenoso, sono una promessa di felicità che nasconde la morte e il deragliamento morale e vivono storie di perdizione e morte che mi coinvolgono sempre.

 

Chimamanda Ngozi Adichie in un suo saggio tenta di spiegare alla figlia perché dovremmo essere tutti femministi. Come affronta lei questo spinoso argomento con sua figlia?

Mia figlia non ha ancora quattro anni, per ora i suoi argomenti preferiti sono le papere e le palline. Immagino che anche quando crescerà non le dirò nulla di specifico, non la indottrinerò. L’unica cosa che potrò fare è mostrarle con l’esempio come vive una donna che rispetta e si fa rispettare dagli altri, uomini o donne non importa.

Aggiungiamo una postilla moderna a “Lettere ad un giovane poeta” di Rilke: che consigli darebbe ad un ragazzo che volesse approcciarsi all’arte scrittoria oggi?

Tornando alla risposta di prima gli consiglio la lettura lenta e meditata dello Zibaldone di Leopardi, che sa consigliare molto meglio di me. Poi gli consiglio di scrivere se ha voglia di farlo per godersi il momento in cui lo sta facendo più che il dopo. Il dopo è incerto e potrebbe essere frustrante e deludente, e comunque non è appagante come quello che viene prima.

Se potesse incontrare un artista su di una fumante tazza di caffè chi vorrebbe che fosse? E perché?

Io avrei voluto incontrare Rainer Werner Fassbinder. Ho pensato spesso che avrei voluto incontrarlo e bere qualcosa con lui, ma poi ho anche pensato che lui non avrebbe avuto interesse a incontrare me, e che probabilmente mi sarebbe apparso com’era nella vita, egocentrico e scostante, e dopo non avrei più potuto venerarlo come ora lo venero. Quindi penso che mi sarebbe piaciuto andare a trovare Flannery O’Connor in uno dei suoi giorni no, quando era obbligata a stare a letto ma comunque continuava a scrivere. Mi piace pensare che avrei bevuto il mio caffè in silenzio guardandola lavorare e sarei stata comunque contenta.

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