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BREXIT: STOP A LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE IN CASO DI NO DEAL. LA GRAN BRETAGNA GUARDA AL MODELLO AUSTRALIANO

La Gran Bretagna guarda all’Australia e annuncia la linea politica rigida dettata dal nuovo premier Boris Johnson: in caso di uscita dall’UE senza accordo, stop immediato alla libera circolazione delle persone.

Così la Gran Bretagna ed il suo nuovo Primo Ministro Boris Johnson (già Ministro degli Esteri nel partito conservatore) affermano la loro posizione ancor più dura rispetto a quella dettata dal predecessore Theresa May; una posizione che, ove diventasse concreta, comporterebbe un radicale cambiamento della situazione politica interna del paese, un importante irrigidimento delle politiche sull’immigrazione e sul contrasto alla criminalità ad opera delle persone che entrano nel Regno Unito e, non ultimo, non poche problematiche riguardo al tema dell’importazione dei beni di prima necessità.

LE TAPPE

Nel febbraio 2016 David Cameron, allora Primo Ministro appartenente all’area politica del partito conservatore, nel tentativo di ottenere un margine di maggiore potere per la Gran Bretagna nei rapporti con Bruxelles e di strappare un accordo favorevole per il suo Paese, lanciò l’idea di una possibile uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Si crearono così due correnti di pensiero, quella del Remain, nella quale paradossalmente vi era anche quella parte dei conservatori che faceva capo allo stesso Cameron, oltre che i laburisti, i liberaldemocratici e le altre forze politiche riformiste e progressiste, tutte favorevoli alla permanenza nell’Unione; e quella del Leave, alla quale apparteneva l’ala conservatrice che faceva capo a Boris Johnson ed il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, che invece propendeva per l’uscita dall’Unione, sposando una linea politica nettamente antieuropeista.

Il 23 giugno 2016 si teneva in Gran Bretagna e nella colonia inglese di Gibilterra un referendum consultivo attraverso il quale i cittadini erano chiamati ad esprimersi e decidevano che l’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea comportava in proporzione benefici minori rispetto a quelli che erano i costi dell’immigrazione e della libera circolazione dei cittadini dell’Unione in Gran Bretagna.

Non può sottaceti come la campagna elettorale propedeutica al referendum sia stata segnata da un particolare livore e addirittura, ad una settimana dal voto, si sia consumato l’efferato omicidio da parte di un fanatico, della deputata Jo Cox, laburista apertamente ed attivamente schierata in favore della permanenza nell’Unione.

Poco meno di un anno dopo il referendum che ha registrato la vittoria del Leave (sia pur con un vantaggio di soli tre punti percentuali o poco più), il 29 marzo 2017, l’allora premier Theresa May (succeduta a Cameron) notificava formalmente al Presidente del Consiglio Europeo la volontà di uscire dall’Europa, attivando così – all’esito di un necessario passaggio in Parlamento con cui si manifestasse la volontà politica di uscire dall’Unione, non essendo vincolante l’esito del referendum consultivo – la procedura di cui all’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea e fissando al 29 marzo 2019, dunque a due anni dopo, il termine ultimo per la possibile negoziazione di un accordo con l’Europa stessa.

Il 19 marzo 2018 arrivava una sorta di “salvagente”; il Regno Unito e l’unione concordavano un piano di transizione di massima finalizzato ad evitare quella che era definita, peraltro con una punta di terrore, la “Hard Brexit”, ovvero una manovra difficile e segnata dall’introduzione repentina di controlli più severi sull’ingresso in Gran Bretagna degli stessi cittadini europei, la verosimile uscita dal mercato unico europeo con le relative nefaste conseguenze ed ancora l’apposizione di barriere commerciali tra il Regno Unito e l’Unione Europea.

Il suddetto piano di transizione è stato portato al voto nel Parlamento inglese il 15 gennaio 2019 e clamorosamente bocciato con oltre 400 voti contrari su un totale di poco poi di seicento espressioni.

Seguivano ulteriori tentativi della premier May per il conseguimento di un accordo per l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tutti bocciati dalla Camera dei Comuni e segnati, tra l’altro, dalla necessità per la Gran Bretagna di partecipare alle elezioni europee del maggio 2019 per scongiurare l’uscita immediatamente successiva dall’Europa che si sarebbe concretizzata il 1 giugno successivo ove il Regno Unito non avesse partecipato alla tornata.

All’esito delle elezioni europee la premier Theresa May manifestava l’intento di rassegnare le proprie dimissioni per non essere riuscita a definire i punti dell’accordo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione; le succedeva quale leader del partito conservatore Boris Johnson, eletto alla carica di Primo Ministro di Gran Bretagna il 24 luglio 2019.

IL NO DEAL: USCITA SENZA ACCORDI

Ad oggi, a poco più di due mesi dalla tanto attesa procedura di divorzio, lo scenario è decisamente drammatico, poiché sul Regno Unito incombe lo spettro del “no deal” che in termini letterali significherebbe un’uscita dall’Unione Europea senza alcuna intesa commerciale. A ciò è fermamente determinato il Primo Ministro Johnson che ha ribadito pubblicamente che, accordo o no, il 31 ottobre la Gran Bretagna non sarà più parte dell’Europa, costi quel che costi.

E quanto ai costi, essi sono almeno ipoteticamente prevedibili e si concretizzeranno verosimilmente nel crollo della sterlina inglese e del suo potere di acquisto, nell’annichilimento del mercato immobiliare, nei costi esorbitanti per le imprese e nell’impostazione di dazi doganali che potrebbero rendere difficoltosa addirittura l’allocazione di risorse e beni di prima necessità, quali cibo e medicinali.

Per i sudditi di Sua maestà la regina Elisabetta, ma anche per i cittadini dell’Europa tutta si prospetta un periodo di profonda incertezza, poiché a partire dal 1 novembre 2019 la Gran Bretagna, almeno teoricamente, potrebbe chiudere le porte della nazione – in caso di mancato accordo – ai cittadini europei, che non potranno più emigrare nel Regno Unito liberamente. Si contravverrebbe dunque al principio della libera circolazione delle persone con evidenti risvolti discriminatori e di grave impatto sulla vita della gente comune.

Negli ultimi giorni, tuttavia, si sono registrati nuovi scenari nel panorama politico anglosassone, poichè il Parlamento inglese ha formulato una proposta finalizzata a ritardare ulteriormente la procedura di uscita e scongiurare il “no deal”, circostanza che ha già implicato alcune defezioni nel gruppo conservatore guidato da Boris Johnson e la perdita della maggioranza.

La Camera dei Lord ha votato di approvare una legge che ritardi l’uscita del Regno Unito dall’Unione proprio al fine di raggiungere il tanto agognato accordo; se entro il 19 settembre prossimo del mese prossimo non sarà raggiunta un’intesa con la Ue, il premier dovrà chiedere a Bruxelles di spostare tutto fino alla fine di gennaio del 2020.

Johnson dal canto suo sembra avere, almeno politicamente, i giorni contati.

Londra tuona ed avverte; e a noi che all’Europa apparteniamo non resta che attendere per sapere cosa accadrà.

Copyright foto: http://www.sapere.it/sapere/strumenti/domande-risposte/economia-societa/brexit-significato.html

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