Prima di parlare della miniserie Guerrilla, partiamo da un concetto fondamentale per introdurla: il Black Atlantic.
È stato il professore di storia anglo-americana del King’s Collage, Paul Gilroy, a fornirci nel 1993 la definizione più corretta di Black Atlantic come sistema di interazione che ebbe inizio quando gli schiavi di molte parti dell’Africa, con diversi retroterra etnici, furono messi assieme e costretti a comunicare nelle lingue del loro padrone fino a creare dopo, spontaneamente, un proprio personalissimo “Nuovo Atlante” in movimento, linguistico ed emozionale, che comprendesse tutte le differenti glosse e retaggi etnici costretti alla coabitazione forzata.
Il Black Atlantic diviene nel corso dei secoli, perciò, la dimora itinerante di coloro che decidono di esercitare forma di potere alternativo alla sovranità territoriale ufficiale, trovando i suoi primi rappresentati attivi a partire dal tardo XVIII secolo, come Olaudah Equiano e Phillis Wheatley, ad esempio.
La questione della identità/non-identità delle culture nere ha assunto una particolare rilevanza socio-politica in Gran Bretagna dove la diaspora transculturale della Black Britan ha delineato un’ulteriore coscienza soprattutto a partire dell’era globalizzazione e della parabola dell’Imperialismo.
Nella Gran Bretagna del XXI secolo i Black Britons non si sentono solo metaforicamente depredati del loro corpo ma in perpetua negoziazione fra i loro retaggi africani ( Africa che comunque oramai restava, per l’etnografo Leiris, miraggio di un impossibile ritorno alle origini e alla totalità perduta) e la cultura europea nella quale sono immersi, tanto da desiderare un immaginario nuovo spazio, una terra di mezzo fra queste due polarità dove rivendicare la loro presenza sia fisica che sociale.
Ed è proprio in questo quadro politico che s’innesta la miniserie di sei puntate per Showtime di Guerrilla.
Lo showrunner, John Ridley, già acclamatissimo sceneggiatore di opere come 12 anni schiavo e American Crime, porta in scena il dramma di alcuni membri delle Black Britain Panters (BBP) che decidono di rispondere con l’azione diretta all’Immigration Act, atto del 1971 che avrebbe limitato il flusso migratorio primario dalle colonie del Commonwealth nel Regno Unito.
Nella Londra degli anni ’70 pulsano i richiami agli echi americani della lotta continua di Malcolm X, delle tensioni brigatiste ed antistatali tedesche ed italiane, della diffusione del brevissimo pamphlet politico Afrikan Revolution di Amilcar Cabral, col suo inno esortativo alla rivoluzione armata e della dignità della negritudine di Du Bois.
Già dalla prima puntata, Ridley evita, come Spielberg per Munich, inutili didascalismi, e ci immerge nella quotidianità brutale e razziale dei personaggi: Marcus Hill ( Babou Ceesay), professore di letteratura inglese al quale viene negato, in quanto nero, l’accesso all’insegnamento e Jas Mitra (Freida Pinto), la fidanzata indiana, intensamente insofferente dopo l’arresto dell’amato padre, membro attivo del movimento naxalita in Pakistan.
Figli delle colonie che hanno costruito un impero sullo schiavismo, vengono motivati alla resilienza politica da Il drago volerà, un resoconto cronachistico delle battaglie per l’ emancipazione nera ad opera di Dhari (Nathaniel Martello-White) detenuto in carcere dopo un accoltellamento.
Quando la polizia, per mano del detective Pence (interpretato dall’acclamato attore shakespeariano Rory Kinnear), uccide durante una manifestazione pacifica Julian, uno dei migliori amici della coppia, i due decidono di far evadere Dhari ed iniziare, così, una guerriglia nei confronti del sistema esecutivo britannico, quei poliziotti del Sud Africa e Rhodesia addestrati alla feroce violenza nei confronti di tutti i neri radicali o presenti tali.
Germinano a confronto tre modalità diverse di percepire il movimento politico: da una parte Marcus che, in nome della Parola, crede nell’importanza di scrivere un Manifesto politico affinché altri fratelli neri possano unirsi alla causa, Dhari che vorrebbe portare la lotta in strada, creando una degenerazione caotica dell’establishment vigente e Jas che, su modello di Ulrike Meinhof , crede fermamente che l’unica soluzione possibile sia quella di puntare il dito direttamente alla pancia della bestia fino a squartarla.
Come ogni banda politica degli anni di piombo, i tre diventano un’appendice del grande organismo dell’illegalità delle rivoluzioni sotterranee tanto da allearsi con gli Angry Brigade, universitari maoisti che offrono loro aiuto come propagande par le fait, ben coscienti di essere, come tutti i movimenti, “dei cani ai quali i padroni danno ben contenti gli scarti”.
A contrapporsi a questa riottosità giovane si insedia però l’ambivalente figura di Kent ( Idris Elba, di questa serie anche produttore), ex fidanzato di Jas, costretto dalla comunità ad imporsi come figura di rappresentanza antitetica al gruppo Bishop-Mitra, pronto a rivendicare attraverso i mass media la mitezza della popolazione nera contro qualsiasi bagno di sangue, per rabbonire così i bianchissimi liberali in ascolto.
Kent è il personaggio più contemporaneo, non vuole abbracciare nessuna causa che non gli ricordi che lui è davvero un inglese fra gli inglesi, che è a pieno diritto britannico, e non di certo l’aggiunta viva di lontani echi esotici.
E’ Jas, assieme ad Eliette, giovane membro del Fronte di Liberazione dei Quebec, che decide di portare la battaglia clandestina ad un livello successivo, abbandonando gli idealismi astratti per le molotov e gli esplosivi militari per combattere da buoni soldati in nome dei disperati e degli oppressi, nelle strade e nelle case, al suono dell’Overture di Che e Hampton.
Le interpretazioni attoriali in Guerrilla sono calibrate ed intense, su tutte, Freida Pinto, che disegna il personaggio di Jas con un piglio lucidissimo e volutamente quasi anaffettivo, tipico delle brigatiste settantottine, che siano essere reali come Desdemone Lioce o immaginate, da Chiara di Buongiorno,notte a Jule di Die bleierne Zeit.
E se impressionanti sono gli occhi demoniaci di Dhari, che all’inizio viene assunto come simbolo politico di una intera rivoluzione ma che col tempo invece si rivelerà un opportunista uomo qualunque interessato più che alla giustezza sociale al sesso ed al denaro, a fare tenerezza è invece la figura di Marcus, affabulato un tempo dagli scritti di Dhari fino a comprenderne poi la reale natura e la vuotezza dei suoi ideali.
Dal punto di vista tecnico, l’uso sapiente sia della scenografia che della fotografia ben richiamano i cromatismi delle pellicole anni ’70, ed il gioco costante ma non frenetico fra lenti a grandangolo per le scene di conflitti ed i primi piani che focalizzano l’attenzione sulla tensione muscolare dei protagonisti al ritmo di The Pioneers e di Femi Kuti, fanno di Guerrilla un prodotto di elegante qualità.
Ridley ha avuto l’abilità di spostare l’occhio di bue su un pezzo troppo spesso dimenticato della Storia europea, il coraggio dei movimenti neri in Gran Bretagna agli inizi degli anni ’70, non solamente un amarcord di un periodo cruciale dell’offensiva nera nei confronti del sistema dominante, ma un granitico monito verso le nuove generazioni di neri che oggi più che mai sono ritornati a formare numerosi gruppi di dissidenza –vedi i Black Lives Matter – per rinnovare una lotta continua contro la brutalità della polizia e le giudiziarie disuguaglianze.
L’insegnamento di Guerrilla è proprio questo infatti: se in un sistema così imperfetto le minoranze razziali sono eternamente in pericolo di perdere il corpo (minaccia poi spiegata magistralmente da Ta-Nehisi Coates in Tra me e il mondo) qualsiasi scontro armato come soluzione non potrà che essere un’altra strage inutile.
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