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ILVA DI TARANTO: LA STORIA TRAGICA DELL’ACCIAIERIA PIÙ GRANDE D’EUROPA

Correva l’anno 1960, luglio.

Apre i battenti, nel quartiere Tamburi a Taranto, per una superficie complessiva di oltre 15 milioni di metri quadrati, l’Italsider, stabilimento creato per diventare il più grande serbatoio di ferro e di acciaio d’Europa.

In una città, Taranto, che qualche anno prima Pier Paolo Pasolini descrive come «perfetta. Viverci è come vivere nell’ interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari», nel 1964 entra in funzione il primo altoforno della fabbrica, nel 1965 il secondo.

L’intero Meridione, sfasciato dalle riforme agrarie, saluta il primo arrivo dell’industria pesante in Puglia con una gioia senza pari: finalmente si apriranno -crede- possibilità lavorative concrete anche nel terziario.

Passano gli anni e, per quattrocento miliardi di lire, il centro siderurgico dell’Italsider si ingrandisce pian piano sempre di più, un’estensione che quasi supera quella della città dalle nasse luccicanti sul porto e degli sdentati cantastorie nel cuore di San Cataldo.

Taranto. Non solo Ilva. (Copyright immagine)

Negli anni ’80, nel pieno della crisi dell’acciaieria pesante, si inseriscono i fratelli Riva che, con un coupe de theatre, decidono di acquistare lo stabilimento per 2.500 miliardi di lire, privatizzandolo col nome di Ilva (dal nome latino dell’isola d’Elba, dove veniva estratto il ferro che alimentava gli altiforni a inizio Ottocento).

Ai Riva spetta il compito di rilanciare l’Ilva, proprio in un periodo in cui iniziano a diffondersi i primi allarmanti bollettini medici sul vertiginoso aumento dei casi tumorali in città, aggrumate conseguenze dei fumi tossici che si diffondono giornalmente proprio dagli altiforni.

La maggior parte degli operai, di fronte ai primi morti di cancro (che magari sono una madre o un figlio), finge di non vedere: insomma essere stipendiati, nella immobilità desolante del Mezzogiorno, sembra la sola auspicabile benedizione.

Rispetto ai loro colleghi del Nord, come gli operai della Fiat, la forza lavoro dell’Ilva comprende decine di migliaia di ex braccianti strappati ai campi e gettati nelle periferie della città, «metalmezzadri» (come li definirà Walter Tobagi nel Corriere della Sera del 1971) inoccupati disperati delle province che, per essere assunti, giurano tutti ai capi che mai si iscriveranno ai sindacati e che accetteranno di buona lena ogni straordinario venga loro richiesto.

È solamente nel 2012 che la magistratura tarantina dispone, quando oramai non solamente il numero di decessi per cancro terminale e leucemie fulminanti è cresciuto paurosamente ma sono iniziati a nascere anche i primi bambini già malati, il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali.

Vengono disposte misure cautelari per disastro ambientale a carico dei vertici aziendali, come l’indagato Emilio Riva , presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010 e il suo successore, suo figlio Nicola.

Nonostante l’inchiesta del Gip sul terribile inquinamento che il complesso industriale sta causando a Taranto e, a macchia d’olio, con la diffusione delle tossine per via aerea, al resto della Regione, sia dettagliatissima, il governo Monti emana un decreto che autorizza la prosecuzione della produzione dell’azienda, calpestando di fatto le più elementari regole di sicurezza.

Dall’anno successivo, fino ad oggi, si succedono Gip e commissioni, i primi ordinano di far chiudere definitivamente lo stabilimento (come quando Patrizia Todisco ordina un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo Riva) e i secondi  invece annullano tragicamente le disposizioni dei primi.

Ciminiere dell’Ilva verso il mare (Copyright immagine)

Nel gennaio 2016 viene istituito un bando che invita a candidarsi se interessati ad acquisire l’Ilva.

A vincere l’appalto con il compito di rilanciare il polo, è la multinazionale franco indiana Arcelor Mittal che però pretende come unica clausola “uno scudo penale” ovvero la possibilità di usufruire di un’immunità penale circa i danni ambientali del passato.

Nel 2018, l’allora ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio, chiede però di avviare un’indagine circa la legittimità della gara d’assegnazione dell’Ilva a Ancelor Mittal e, anche se l’Avvocatura dello Stato risponde che non esistono gli estremi per annullarla, Di Maio avanza l’ipotesi di eliminare “lo scudo penale”, causando di fatto l’abbandono dell’Ilva da parte della Ancelor Mittal, l’unica multinazionale che avrebbe potuto riconvertire l’acciaieria riducendo i danni ambientali.

Al momento in Ilva lavorano 11.200 dipendenti, a cui vanno aggiunti i tremila dell’indotto. Poiché, in seguito alla fermata di alcune aree della fabbrica, si producono 17 mila tonnellate al giorno (anziché 30 mila), il contratto di solidarietà ha riguardato negli ultimi anni oltre 4 mila dipendenti.

Bisogna ripartire da Taranto.

E questo significherebbe creare nuovi posti di lavoro che escludano l’impiego coatto (“o si lavora all’Ilva o si fa’ la fame!“) in questo agglomerato di morte, come ritornare all’identità tarantina che passa attraverso il mare e quindi intensificare le operazioni di import-export e le attività logistiche dell’area retroportuale, attrarre nuove imprese affinché investano sul territorio, restituire valore al Museo del mare con mostre e eventi.

Bisogna veramente investire al Sud.

E affinché il Meridione risorga dalle sue ceneri e fumi condensati c’è da ripartire, appunto, da Taranto, come scriveva il compianto giornalista tarantino Alessandro Leogrande in un libro sull’argomento di un chiarore dolente: “Dalle Macerie“.

Trasformare i denti stretti di rabbia e rassegnazione dei cittadini in speranza e fiducia nelle istituzioni.

Affinché nessuno debba più sentirsi sacrificabile in nome del profitto, soprattutto i bambini.

Le Sirene di Taranto (Copyright immagine)

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