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COME UN LIBRO APERTO. INTERVISTA ALLA ILLUSTRATRICE E SCRITTRICE MIRIAM TRITTO

I margini di una presentazione dell’artista milanese Miriam Tritto sembrerebbero quasi oscillare per l’impossibilità di contenere una sua descrizione breve.

Dopo la laurea in Storia dell’Arte all’Università Statale di Milano e gli studi paralleli d’arpa al Conservatorio di Pavia, Miriam si specializza all’Accademia di Belle Arti di Brera e poi anche in illustrazione allo IED, continuando strenuamente a coltivare l’humus per quell’auspicato innesto tra arti visive, musicali e letterarie.

Accanto ai suoi lavori pittorici, dove predilige le tecniche legate alla pittura tradizionale come l’olio e la tempera, il disegno a tratto realizzato a china o a grafite, il pastello e la sanguigna, da pochi mesi Miriam è anche in libreria con  “Come un libro aperto” (Hop! edizioni), dove intesse dei dialoghi immaginari con gli scrittori da lei più amati (da Emily Dickinson a J.R.R.Tolkien, da Emily Bronte e a Edgar Allan Poe) e li accompagna con preziosissimi ritratti in grafite.

Incontrata all’incrocio di uno dei suoi viaggi onirici, l’artista Miriam Tritto non ha riposto il filo e l’ago nel suo astuccio e ci ha parlato, vivida e coloratissima, proprio…come un libro aperto.

Ecco la sua intervista.

Nella sua recente pubblicazione Come un libro aperto” (Hop! edizioni), lei intesse un dialogo immaginario con venti autori amati dal quale emergono, con arguzia filosofica e estrema delicatezza, i ritratti biografici dei suoi intervistati. Da dov’è nata lidea di questo suo progetto?

È nata prima di tutto un’immagine: il volto di Emily Dickinson con al centro della fronte una rosa e le sue mani intente a offrire se stessa come un libro aperto, il suo petto che schiude le celle di un alveare, un trifoglio circondato da altre rose al vertice del corpetto, due api a segnare il cerchio del tempo attorno al suo viso e una a stillare il miele dalle sue labbra. L’ape per me rappresenta l’esempio della vera industriosità, della virtù cooperativa, dell’armonia di natura e della dimensione sacra. Questa visione è stata l’inizio della poiesi dedicata agli autori letterari che presto si sarebbe tradotta in un ciclo di disegni realizzati a grafite, ispirati all’arte dei folded books e delle sculture di libri. Ho voluto omaggiare quegli scrittori che ho amato e ai quali sono riconoscente per aver nutrito il mio spirito negli anni, così sono nati i primi ritratti che ho successivamente completato durante la lavorazione del libro e che sono andata ancora avanti a realizzare. Io e Diego, compagno nella vita e socio nel lavoro, abbiamo organizzato varie esposizioni per far conoscere questo progetto ed è stato gratificante vedere quanto entusiasmo ci fosse da parte delle persone nello scoprirlo. Il desiderio di mostrare le immagini a un editore che potesse vederci quel che vi abbiamo visto noi è sbocciato dopo. Così è avvenuto l’incontro con la direttrice editoriale di Hop! Edizioni, Lorenza Tonani, che ringrazio per la fiducia che ha da subito riposto in me, ed è sorta la nostra collaborazione. La sua intuizione è stata quella di inserire questo ciclo all’interno di una collana chiamata “20”, affidandomi il secondo volume e accogliendo la mia proposta di scrivere i testi che avrebbero accompagnato le venti illustrazioni nel libro. È stata un’associazione immediata per me pensare a delle interviste immaginarie ambientate nei luoghi del vissuto biografico degli autori (senza la pretesa di un lavoro filologico), così da dar loro una voce (desunta dalle loro stesse opere, dalle lettere, dalle autobiografie) esaudendo tutte le possibilità di un incontro onirico che valicasse i confini del tempo e dello spazio, e mi desse la possibilità di rivolgergli liberamente domande sull’esistenza. In questo modo il lettore, insieme a me, può darsi appuntamento con Calvino nella sua casa di Castiglione della Pescaia, con Mary Shelley a Napoli, con Emily Brönte nella brughiera dello Yorkshire occidentale, con Orwell nelle isole Ebridi, con Anaïs Nin in uno storico jazz club di New York, con Kafka nella magica Praga, con Victor Hugo e George Sand nella Parigi dell’Ottocento… e discorrere sul senso della vita.

Emily Brontë (Copyright immagine)

Limprescindibile accompagnamento ai personaggi incontrati durante questi dialoghi di amorosi sensi”, sono i suoi ritratti in grafite, disegni che sembrano quasi acquisire, grazie ai suoi elementi simbolici, unulteriore voce di approfondimento alle storie svelate. Come spiegherebbe questo particolare rapporto con il Surrealismo e Simbolismo?

Il lavoro sul simbolo è per me imprescindibile dal mestiere dell’arte. Il simbolo è la sorgente dell’immaginario, della vita psichica, della creatività, della cultura e quindi dell’espressione artistica; la conoscenza simbolica riveste un’importanza fondante, direi ontologica, nel processo evocativo delle immagini. Attraverso i simboli si apre un livello di narrazione preliminare e sotterraneo, un movimento di discesa e di ascesa. Scegliere ad esempio per ogni scrittore determinate immagini e soluzioni formali mi ha permesso di introdurre lo spettatore al mondo interiore di quell’autore e a quello esteriore delle sue opere, giocando su un doppio livello di riconoscibilità e di mistero che induce al disvelamento, funzione propria del simbolo. La simbolizzazione è una proprietà essenziale e privilegiata dell’uomo, collocarsi all’interno di un discorso simbolico significa indubbiamente percorrere la dimensione antropologica. Le correnti simboliche e surrealiste non fanno altro che esprimere questa sensibilità; a mio modo di vedere non costituiscono affatto una fuga dalla realtà, sono invece un recupero della realtà in senso profondo, nella sua radice archetipica, quindi universale.

Miriam Tritto (Copyright immagine)

Il suo lavoro è una viva commistione tra arti visive, musicali e letterarie. Come riesce a intrecciare armonicamente queste urgenze espressive?

Semplicemente esiste tra loro un legame, fanno parte del Tutto e non è solo un mito rinascimentale; sono forme espressive differenti di un comune sentire che è sinestetico, e qui ho il piacere di anticipare il contenuto di una sua domanda successiva. Non ho mai voluto ragionare in senso settoriale e reciderne una a discapito di un’altra; certo la prevalenza di una forma espressiva si manifesta per vocazione e prende il sopravvento, ma non per questo le altre vanno messe a tacere, anzi possono intervenire a completamento e a integrazione, coordinate da una regia. Da sempre amo il teatro (di prosa e lirico) e il cinema soprattutto perché fanno convivere tutte le forme artistiche. Negli anni della mia formazione alla fine sono approdata al corso di Scenografia probabilmente per questa esigenza conciliante.

 

Come significa per lei lArte e fare Arte oggi?

Domanda complessa e importante, per la quale la ringrazio. È un argomento al quale tengo molto e che intreccio ai temi dell’utopia e del simbolo, a mio avviso ambiti strettamente connessi; per argomentare tocca che mi dilunghi un pò. Il significato dell’arte per me è tutto racchiuso in questa frase di Walter Benjamin: “L’unicità dell’opera d’arte coincide con il suo radicamento nel contesto della tradizione e non si separa mai del tutto dalla sua funzione rituale e simbolica, ove ebbe il suo primo e originario valore d’uso.” I prodotti dell’arte sono destinati a donare la chiave per aprire a una comprensione più profonda delle cose, il che è la stessa ragion d’essere di ogni simbolismo; niente di più lontano dalla concezione autoreferenziale e confusionaria della teoria dell’art pour l’art, ammiccante alla pratica del denaro per il denaro, della quale l’arte soffre da più di un secolo perché asservita alle logiche di consumo e profitto tipiche della società tecnologico-capitalista nella quale viviamo. L’arte non è un gioco provocatorio e inconsistente, o un mezzo per procurare all’uomo un piacere edonistico e di lusso. Se davvero si trattasse di questo, non si vedrebbe come e perché sia esistita una devozione delle immagini con tanto di pellegrinaggi, né avrebbe avuto luogo e senso l’utilizzo del simbolo come di un velo. Un dato di fatto è che oggi l’arte non viene considerata un bene comune organico all’intera società e non viene messa al servizio della comunità, come lo era nel Medioevo, ad esempio, grande secolo di luce per questo. Tuttavia vedo dei risvegli e dei buoni semi nel chiuso mondo dell’arte stessa, nel mondo editoriale, in alcune produzioni dello spettacolo, in certa manifattura artigianale e progetto aziendale che opera nell’ambito della serialità industriale. Un pensiero utopico di laboratorio dell’oggi e del domani, potrebbe riattualizzare questo proposito. Faccio un esempio al quale mi rivolgo sempre per aspirazione. William Morris, fautore del movimento Arts and Crafts, aveva immaginato nell’Ottocento un’utopia che rifondasse le basi della società, dall’educazione al lavoro, mettendo la bellezza e l’essenziale al centro del vivere quotidiano, dagli oggetti d’uso comune, alle architetture, alle opere stesse, per vivere meglio, secondo natura e con il fine di un perfezionamento spirituale.  La trasmissione artigianale, il suo bagaglio di simboli e il passaggio degli strumenti del mestiere stavano andando perduti, ma ci sono alcuni di noi che con fatica, cercano di recuperare come degli amanuensi questa origine nella continuità, attraverso la propria esperienza diretta, l’osservazione delle opere e degli esempi del passato e la lettura dei testi che la tradizione ci ha tramandato.

Bisogna che si rammenti ed esempio che la pratica dell’arte, come qualsiasi altra, è una vocazione. A chi sostiene che l’arte sia un bene superfluo che una nazione indebitata non può permettersi rispondo che è proprio questo errore che ci ha portato a svilire la bellezza nel mondo, a smarrire il nostro senso identitario, a ricoprire le nostre cattedrali di cartelloni e schermi pubblicitari e a sottrarre risorse finanziarie alla cultura, alla ricerca e alla conservazione che si occupano di mantenerla al centro della vita. Il fattore economico è stato fatto diventare determinante per poter realizzare qualunque cosa, ma distruggendo la bellezza si distruggono la fisionomia e il carattere di un popolo, con il cattivo gusto e la perdita di significato delle cose. L’arte è anche un fatto politico e non può assolvere al suo compito senza l’ausilio di una politica virtuosa che smetta di accentrare tutto a un uomo egoico e disarmonico, esperto nel disfarsi di se stesso attraverso i disastri ecologici (dico di se stesso perché la natura avrà sempre la meglio, basta guardare come piante e animali si siano rimpossessate degli spazi in nostra assenza) che altro non sono che preludio al collasso umano, come stiamo vedendo in questi giorni. Se non vogliamo considerare l’umanità come una forma parassitaria bensì come una forma di testimonianza elettiva, occorre recuperare e conservare responsabilmente quei principi che mantenevano certi aspetti del mondo umano nella luce, aspetti importanti come astri nel buio, soprattutto nel momento in cui l’errore, che è umano, persevera. Quindi, dal mio punto di vista, l’arte tutta deve avere uno sguardo bifronte al passato e al futuro; il suo compito, è quello di prendersi cura del presente (bellezza), di avere curiosità e memoria (simbolo), sogno a occhi aperti e visione, o meglio visionarietà (utopia). Ogni volta che coglie una nuova possibilità, l’opera ci consente di capire da dove veniamo e verso quale destinazione andiamo. Questa è la funzione utopica dell’arte. L’arte, come ogni forma di progettazione e ideazione e come il destino, si serve del disegno che è pratica fondamentale non solo come testimonianza del mondo e liberazione dell’uomo attraverso la conoscenza, ma anche come disciplina che richiede pazienza, perizia, spirito di osservazione, memoria e comprensione della proporzione di tutte le cose. In questa prospettiva l’uomo diventa l’arco teso di Chirone.

Visto che ogni colore è espressione di un linguaggio emozionale dellinconscio, con che aggettivi, a livello sinestetico, descriverebbe alcuni colori?

Provo a elaborare un flusso di coscienza. Il blu è il bagno nell’origine accompagnato da suoni ancestrali, è la tinta nel capolettera miniato che rivela il nostro nome, è la volta affrescata e trapuntata di stelle, il cui bagliore giallo riporta all’agre tensione della ricerca e al dolce miele dello stupore, tipico della curiosità infantile, energica come i tamburi nella Sagra della Primavera; la loro fusione dona il verde che è il morbido cammino di seta disseminato di fragole e popolato di spiriti nel giorno di San Giovanni, nella stagione giovanile, sotto un cielo estivo dove risuonano accordi modali e improvvisazioni jazz mosse dal pelo aranciato di un gatto. Il rosso annuncia l’età autunnale, il fuoco che vuole esser domato tra dispersione e concentrazione, ed ecco l’ipnotismo del rock e del grunge; sporcato nel blues delle origini diventa viola e cede il passo all’età contemplativa della vita, al canto lirico, ai drappi di velluto che adornano un portone sul cui batacchio si affaccia una maschera grottesca; al ricordo dei frutti di bosco, al nuovo solstizio e rito di passaggio, alla rinascita di nuovo nel blu, celebrato da endecasillabi sciolti nel bianco di un foglio. Ed ecco l’azzurro, solcato dall’arcobaleno che congiunge il cielo alla terra e in quest’alleanza ecco l’esperienza del sacro.

Se fosse un personaggio di come un libro aperto”, come descriverebbe sé stessa?

Piedi per terra e testa tra le nuvole, occhi chiusi a ricever sogni, pensiero alato e mani aperte a creare mondi, con occhi che sguardano dai palmi. Alle dita il colore dell’inchiostro, pigmenti in polvere e le corde di un’arpa. Una stella fissa sopra di me e il mio cammino davanti, teso a gettare ponti.

 

Quali opere (sonore, visive o scritte) sono state la sua Sindrome di Stendhal”?

Cito un’esperienza per ciascuna. Ho avuto una vera e propria sindrome di Stendhal davanti alla “Giuditta e Oloferne” di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. In forma più lieve si è manifestata davanti a tutte le opere della qual vista ho potuto godere in quel viaggio che toccò Roma e Napoli e che avevo intrapreso in perfetta solitudine, come fosse un pellegrinaggio, per andare a vedere con i miei occhi le opere dei grandi maestri. Ci sono musiche, poi, che mi procurano brividi anche nel riascoltarle a distanza di tempo, ad esempio mi accade con l’Adagietto della Sinfonia n. 5 di Mahler. Un’esperienza recente in letteratura l’ho avuta con un racconto poco conosciuto di Hermann Hesse, dal titolo Iris e contenuto nel libro L’infanzia del mago. A ogni parola sgorgava una lacrima, sia per il significato esistenziale che racchiudeva, sia perché evidentemente mi portava ad associarlo alla mia bambina, che si chiama proprio così, in onore della messaggera degli dèi, della parte dell’occhio che consente una migliore visione del mondo e del nobile fiore che resiste alle stagioni. Ringrazio ogni giorno perché la natura ci ha dotato di questi doni e non smette attraverso se stessa di rivelarli ai nostri occhi.

Un omaggio dell’attrice e doppiatrice Francesca Giorgi attraverso una lettura tratta da uno stralcio del libro “Come un libro aperto” lo troverete qui.

Per chi volesse approfondire ulteriormente la conoscenza artistica di Miriam Tritto, visitate il suo sito ufficiale: miriamtritto.com.

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