“Nata a Bari, lombarda d’adozione e dal cuore vichingo, abita in una casa in un bosco vicino il lago di Lecco. Raccoglitrice sin da bambina e cuoca appassionata, ha raccontato le erbe selvatiche nel blog La cucina del bosco. Ha poi aperto Pikniq, il primo laboratorio gastronomico wild food in Italia. Oggi lavora come esperta e consulente di cucina selvatica per privati e aziende e tiene corsi di riconoscimento delle erbe e di cucina wild.”
Il wild food è una “nuova” tendenza alimentare all’insegna della sostenibilità ambientale. Ma al di là di ogni tendenza modaiola, il wild food e il foraging sono da sempre esistiti, lo facevano i nostri nonni raccogliendo erbe spontanee ed oggi rappresenta una riconnessione con la natura e le tradizioni, non solo culinarie.
Ci sono numerosissime erbe commestibili in natura, che raramente mettiamo nei nostri piatti, complice un’inclinazione consumistica che ci permette di avere tutto a portata di mano, e in qualsiasi stagione, varcando la soglia di un supermercato.
Eleonora Matarrese ci indica la strada per un approccio diverso al consumo degli alimenti e alla ricerca degli stessi, nel rispetto della biodiversità, approcciandosi a filiere differenti da quelle industrializzate. Ci mostra delle alternative possibili e concrete per un approccio slow, non solo al food.
È una fucina di idee e detiene l’inestimabile conoscenza dell’uso delle erbe spontanee, non esclusivamente destinate ai fini alimentari, ma anche utilizzabili per la cura della casa e della persona, qualora si decidesse di preparare un sapone, un oleolito, un detersivo, una tintura madre. Ed in questo periodo di grande difficoltà, in cui risulta necessario valutare una nuova modalità di approccio al modo di mangiare e consumare, propone una preziosa soluzione: la consegna a domicilio di una cassettina con almeno dieci specie spontanee edibili.
L’abbiamo intervistata, facendoci raccontare la sua storia e il suo punto di vista sulle modalità di consumo sostenibile.
Come nasce la passione per le erbe spontanee e qual è stato il percorso che l’ha condotta fino alla stesura di “La cuoca selvatica”, edito da Bompiani?
Sono cresciuta tra campagna e mare, in Puglia, e quando ero bambina mia nonna mi portava a raccogliere insegnandomi sia le specie vegetali che il loro uso in cucina. Dopo un anno alla facoltà di Agraria, e poi il trasferimento alla facoltà di Lingue, in cui mi sono laureata, ho lavorato per anni come traduttrice e ho tradotto molti testi sulle piante… e sono sempre stata appassionata di cucina. Un giorno ho deciso di realizzare il mio sogno e aprire un ristorante, Pikniq, che è stato com’era naturale che fosse il primo a proporre cibo selvatico, a sviluppare la fitoalimurgia tipica della mia terra e che avevo sviluppato nel mentre allargando la conoscenza ad altri territori, come si evince dai punti di vista nel libro. L’incontro con Bompiani è stato una casualità: mi è stato proposto a seguito di una degustazione avvenuta casualmente nel mio ristorante… mentre descrivevo l’origine dei miei piatti, perché come dico sempre chi mangia ha il diritto di conoscere la tracciabilità degli ingredienti e come sono stati trasformati, mi è stato detto “Ma qui c’è un libro!”. Il resto è storia…
Il suo laboratorio gastronomico Pikniq opera in modo sinergico con il territorio in cui nasce. Cosa l’ha spinta ad avviare questo progetto? E come si è evoluto nel tempo?
Pikniq è nato quando in Italia non si parlava di “cibo selvatico”. Mi colpì leggere su una rivista che era stato scritto un manifesto della cucina nordica, in cui al primo posto c’erano le erbe spontanee di un territorio e i loro usi “storici”. Mi sono subito detta che in Puglia ancor oggi si utilizzano pressoché quotidianamente specie vegetali spontanee per l’alimentazione, e gli insegnamenti di mia nonna erano ovviamente per me al centro di questa riscoperta. Che va di pari passo con la dieta mediterranea, la salute che viene dal cibo vero, la “nascita” di superfood. Io ho sempre mangiato e cucinato così; ho sempre amato cucinare, è stato un cammino naturale.
L’apertura del laboratorio gastronomico e piccolo ristoro a Monza, ben 7 anni fa, è stata una sfida perché all’epoca neanche i grandi chef utilizzavano parti di piante selvatiche per l’impiattamento e il pubblico non era ancora “pronto”. Poi, tra la tendenza e la diffusione delle proprietà delle “erbacce”, la cucina selvatica si è affermata a pieno titolo.
Oggi, Pikniq è un home restaurant a più di 700 metri d’altezza, all’interno di un’area con una biodiversità unica: era naturale e fortemente voluto che fosse in un areale lontano da inquinamento e rumore, dove staccare e “calarsi” nella Natura. Questo per me era fondamentale anche perché la pianta raccolta e portata in tavola in pochi minuti ha tutt’altro sapore e tutt’altra resa.
Qual è l’importanza del foraging oggi?
Il valore sta prima di tutto nel ritorno all’essenza, alla verità di sapore e texture del cibo, alla naturalezza nel cibarci senza intermediari e organizzazioni, produzione massiva e conseguente impatto ambientale. Il valore sta nella riscoperta della tradizione dei nostri avi, nel dare il giusto valore al nutrimento, nello scoprire la potenzialità di alimenti che hanno davvero vitamine, minerali, e quindi sono contestualmente anche curativi. Un aspetto che mi piace considerare è anche, nell’impiattamento, la possibilità di “sbizzarrirsi” con fiori, foglie di forme particolari, parti di alberi, alghe, che esulano da una cucina “classica” e che quindi sono un importante valore aggiunto. Insieme a sapori, mi vengono in mente lo sciroppo di Conifere o i gambi di panace fermentati, che fanno letteralmente “saltare sulla sedia” anche chi di esperienza in cucina ne ha e ha ottenuto stelle per la propria arte. E infine preparazioni che potenziano l’energia e la biodisponibilità dei nutrienti del cibo.
La società tradizionale ha instaurato un rapporto problematico con il tempo, a discapito della stagionalità degli alimenti, non rispettando i ritmi annuali di crescita delle piante. Perché è importante rispettare la stagionalità dei prodotti alimentari? Quali sono i vantaggi per l’ambiente?
La pianta ha un preciso motivo di essere, il suo obiettivo principale “andare a seme” per preservare la sua specie. Così facendo, ci sono il suo germoglio ricco di energia e potenzialità, le sue foglie e i boccioli carichi di vita, il fiore per attirare impollinatori e i semi per “procreare”. In tutti questi passaggi, a parte rientrare nella catena del creato, nel trionfo della vita – e per questo non bisogna “razziare” le piante come se si fosse sugli scaffali di un supermercato ma bisogna raccogliere con cognizione di causa, lasciando piante sufficienti per gli altri esseri viventi e per preservare gli ecosistemi -, c’è il momento balsamico per cui la pianta è alla sua massima espressione per quella che può essere una cura fitoterapica, c’è il momento in cui un fiore ha più profumo, c’è il momento delle parti ipogee – dalla fine dell’autunno alla fine dell’inverno, quando si immagazzinano le energie della pianta nelle radici o nei tuberi, e quindi è meglio assimilarle -.
I miei menù non durano più di una, due settimane: il momento in cui una specie è disponibile ed è al massimo. Poi, ce ne sono altre. E quello è il momento giusto per gustarla, a livello di sapore, ma anche perché la Natura sa cosa serve al nostro organismo in quel momento dell’anno: si pensi al tarassaco che spunta alla fine dell’inverno, in cui siamo stati al chiuso e ci siamo mossi poco, e abbiamo bisogno di depurarci.
Si pensi alla dolcezza dei raggi di sole che hanno trasformato gli zuccheri nei frutti del periodo del raccolto, che contrariamente a quanto si pensa è il periodo dell’anno migliore, per la ricchezza e per riempire le dispense in vista della stagione invernale.
I vantaggi sono in primis un’alimentazione più sensata e da cui consegue un maggior benessere, e per l’ambiente una minore invasività di agricoltura massiva, meno uso di pesticidi, un interesse intrinseco a preservare specie come le api e altre su cui si regge tutto il “sistema Natura”, che viene prima della filiera.
Tramite la cucina selvatica è possibile evitare completamente le filiere industrializzate?
Ho imparato a autoprodurre quasi tutto, quindi la mia risposta è sì. Tuttavia mi rendo conto di come sia molto difficile, soprattutto per chi vive in città e passa tutta la propria giornata chiuso in ufficio, pensare di raccogliere per la propria sussistenza e diventare autosufficiente. È fondamentale un cambio di prospettiva, perché non è detto che chi lavora in città debba “andare a raccogliere”: qualcun altro può farlo e, riducendo al minimo l’impatto a livello di inquinamento, trasporti, etc., consegnare per un’alimentazione più onesta con il mondo e se stessi. Intendo dire che si può evitare la filiera industrializzata anche coltivando, specie antiche e con le consociazioni, seguendo la permacultura, e potenziando con un’ottica ecologica la distribuzione. Limitando consumi di carburante e sfruttando energie rinnovabili. Agire con coscienza.
Le materie prime per le sue creazioni culinarie che non trova in natura, le integra con un orto personale? Quali sono le filiere a cui si rivolge?
Ho sempre avuto un orto, non potrei immaginarmi senza. Utilizzo i miei semi, alcuni conservati e riprodotti dai tempi di mio nonno, agronomo, che tra i tanti progetti lavorò per la FAO per trovare delle valide alternative per limitare la fame nel mondo e già agiva con una cognizione di causa che mi ha insegnato e che per me quindi è sempre stata naturale.
Il mio è un orto in cui ci sono varietà antiche, spontanee, in cui si usa l’acqua piovana, in cui le siepi limitano i danni del vento e si segue l’esposizione al sole, la pendenza del terreno, per operare in sinergia con madre Natura. Non uso concimi e pesticidi, se non macerati di aglio e ortica e pacciamatura, e faccio il mio compost.
Acquisto il latte da chi ha capre e mucche in libertà, le uova da galline che razzolano felici – anche se tra poco avrò il mio pollaio e le mie arnie -. Acquisto solo il Parmigiano, tramite un gruppo d’acquisto solidale. L’olio lo produce la mia famiglia in Puglia, con il metodo classico usato dai miei avi. È una felicità intrinseca già solo parlarne. Io negli ipermercati mi sento soffocare.
Cosa consiglierebbe di fare a chi ha la curiosità di avvicinarsi al mondo del cibo selvatico? Quali sono i primi passi da muovere?
Sicuramente investire in un corso sul campo, nel proprio habitat, per imparare a riconoscere con certezza le prime dieci specie “sicure” con cui si può già partire utilizzandole sia a crudo che cotte che, soprattutto, conservate per avere una dispensa disponibile tutto l’anno. E spesso si tratta di specie che hanno altri usi, sia per la cura della persona che per la casa che per l’orto e l’autoproduzione. Un corso sul campo con un raccoglitore professionista è fondamentale per imparare i “trucchi” e non sbagliare, nel riconoscimento soprattutto. Poi, se si è appassionati, leggere libri sul tema, anche questi scritti da agronomi, botanici, erboristi. Non bisogna assolutamente affidarsi a “curiosi” o improvvisatori. In Italia non abbiamo, a parte l’Alto Adige, un patentino per i raccoglitori e sarebbe auspicabile un riconoscimento della figura con un esame apposito perché troppi sono coloro che consigliano di utilizzare per la propria alimentazione piante non edibili o che non spiegano a fondo le modalità di trasformazione e preparazione, che richiedono attenzione per non sviluppare patogeni.
Tutti i suoi piatti contengono materie prime locali, che cambiano in base al territorio in cui si trova, e raccontano una storia. Racconterebbe ai lettori di Metis Magazine la sua storia preferita?
Una storia che amo molto è legata ovviamente alla mia infanzia. Tradizione pugliese per eccellenza sono i panzerotti, che però ho voluto rivisitare anche per renderli più appetibili persino alla vista, dato che si dice che prima si “mangia con gli occhi”. Così, un anno avevo talmente tanto spinacio selvatico, il farinello (Chenopodium spp.), che tra l’altro contiene fino a otto volte più ferro di uno spinacio “da scaffale”, che ne ho essiccato tantissimo per conservarlo per l’inverno. Ho aggiunto questa polvere all’impasto classico, quello della pizza per intenderci, che è venuto di un bel colore verde brillante. Il ripieno poi si sceglie sulla base dell’estro del momento, ricordo che la prima volta ho messo porcini trifolati con polvere di abete rosso e basta, ho fritto i panzerotti e mangiati caldissimi erano un trionfo di sapori del bosco in bocca.
Poi con uno chef stellato abbiamo usato quella polvere per colorare la sfoglia che ha creato un Wellington con un ripieno alla barbabietola, un contrasto di colori che ha reso l’impiattamento scenico, e il sapore indimenticabile. Questo, con una pianta che cresce anche nei vasi sui nostri balconi, e che spesso viene estirpata perché considerata invasiva. Con una pianta di cui si sono trovati i semi persino nella borsetta di Ötzi, l’uomo del Similaun, perché è naturalmente proteica e dona quel boost in caso di astenia.
La semplicità è la chiave, insieme alla spontaneità.
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Categorie:Il Boccon Di-Vino
Foreging… articolo interessantissimo!!!
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