Minneapolis, Stati Uniti d’America. È il 25 maggio e l’orologio segna le otto di sera.
“Il gigante gentile” George Floyd sta camminando di fretta, per tornare prima a casa dalla figlia che l’ha reclamato per cena.
Ha 46anni, è afroamericano e fino a qualche mese prima era il dipendente più solerte del Conga Latin Bistro, prima di entrare a far parte degli oltre 30 milioni di americani che hanno perso il lavoro a causa delle misure di lockdown per la pandemia globale.
Alla 3700 della Chicago Avenue South, quattro agenti di polizia lo circondano, dichiarandolo in arresto per aver tentato di vendere una banconota contraffatta o forse per presunto uso di droghe. Su queste prime fasi non ci sono di fatto certezze, perché il video, registrato dal telefonino di un passante, parte da quando Floyd, pur non avendo minimamente opposto resistenza, è già a terra, completamente annichilito e sorpreso dalla brutalità dell’agente Derek Chauvin che gli sta bloccando il collo con un ginocchio.
Nei minuti che seguono si vede Floyd urlare disperato “Non riesco a respirare, non riesco a respirare. Non uccidermi!” e Chauvin sorridere in camera, mentre affonda ancor di più il ginocchio nella carne, fino a quando lo fa morire soffocato.
Il video rimbalza immediatamente su tutti i media nazionali, con l’immagine della testa dell’uomo schiacciata a terra e il sangue che gli cola dal naso.
Alla rivelazione dei precedenti degli agenti (Chauvin era già finito sotto indagine per una sparatoria nel 2006 e gli altri due erano stati precedentemente multati per uso eccessivo della forza), il giorno dopo la comunità afroamericana di Minneapolis organizza una prima manifestazione di protesta contro la violenza della polizia.
Le scritte sui cartelli recitano: “Black Lives Matter” e “I can’t breathe”.
Dal 27 maggio, il corteo si fa più violento, trasformando di fatto la manifestazione in aperta rivolta.
Si lanciano sassi e bottiglie contro la polizia, si spaccano le vetrine di alcuni negozi per i primi saccheggi e si sventrano auto.
L’America inizia a infiammarsi tutta, da Minneapolis a New York, da News Orlans a Los Angeles.
Adesso non si marcia più solamente per l’ingiusta morte di George Floyd, ma per l’assassinio di Ahmaud Arbery (un ragazzo di 25 anni del Sud della Georgia morto per le ferite da arma da fuoco riportate mentre cercava di scappare da due uomini, padre e figlio, che lo avevano inseguito mentre faceva jogging), e di Breonna Taylor (26enne uccisa a Louiseville da agenti in borghese mentre dormiva nel suo appartamento), di Freddie Gray e di Alton Sterling, di Rayshard Brooks e una schiera di migliaia di afroamericani assassinati per mano di suprematisti bianchi, lista che sarebbe impossibile aggiornare per quanto si allunga quasi fino alla notte dei Tempi.
Il razzismo è la ferita più profonda degli Stati Uniti d’America.
Un germe così pervasivo da essersi oramai radicato in ogni aspetto della società americana, dall’economia al diritto puro di esistere.
E per quelli che ancora credono che la discriminazione si sia attenuata da dopo l’abolizione della schiavitù nel 1865, basterebbe entrare nel National Memorial for Peace and Justice, a Montgomery, Alabama, per comprende come invece l’ingiustizia razziale è un elemento oramai pericolosamente costitutivo di una Nazione che si è sempre professata democratica e libera.
Nel museo ci troveremmo, ad esempio, i documenti gli atti sulle vittime di linciaggio tra il 1876 e il 1964 durante il periodo della “Jim Crow”, le leggi che continuarono a negare alla popolazione di colore qualsiasi aiuto assistenziale ed educativo, tanto da condannarla a una umiliante segregazione economica, psicologica e persino urbana (i famosi ghetto).
I riferimenti sulla condizione contemporanea della comunità nera sono numerosi e disturbanti.
Nel documentario “Il XIII emendamento“, la regista Ava DuVernay indaga sul perché la popolazione carceraria degli U.S.A. sia popolata soprattutto da afroamericani. Alla base di questo dato c’è lo zampino del governo che è riuscito per anni ad utilizzare una frase del tredicesimo emendamento (“se non come punizione di un reato”) per reiterare la schiavitù nel Sud, attraverso incarcerazioni di massa per reati minori, come il vagabondaggio.
In “Freakonomics” Levitt e Roland G. Fryer hanno metodicamente dimostrato che anche avere un nomi distintamente nero in sé, spesso di origine africana (come Maseesha, Tayrone, Monique) può diventare irragionevolmente un problema, tanto da essere chiamati i “ghetto names“, i nomi che appena pronunciati fanno cadere nel pregiudizio che chi li porta provenga dai quartieri più delinquenziali e malfamati delle città.
A rendere ancora più evidente la denuncia sul perdurante stato di esclusione e povertà degli afromericani, è stato l’attivista nero Rajikh Hayes che ha dichiarato che i manifestanti scesi a protestare in questi giorni a Baltimora, sono pienamente consapevoli del fatto che rischiano di contagiarsi con il Coronavirus, visto che il virus ha già colpito più la comunità nera che quella dominante a causa di una fortissima disuguaglianza che è anche sanitaria.
Nella lettera di Ta-Neshi Coates al figlio Samori in “Tra me e il mondo”, lo scrittore cerca di spiegare al figlio la paura di perdere ancora oggi il proprio corpo in quanto nero, a causa delle sparatorie tra gang e la violenza nelle disastrate scuole pubbliche, i soprusi della polizia e le difficoltà di trovare lavoro a causa del colore della propria pelle.
Anche il pregiudizio razzista inconscio continua a essere molto diffuso, come afferma Eduardo Bonilla-Silva, professore afro-portoricano di sociologia alla Duke University, che, nel suo libro omonimo, parla di “Razzismo senza razzisti” : “Il daltonismo razziale” viene attuato dalla white people quando ci capita, ad esempio, di vedere serie tv girate solo con attori caucasici o quando fingiamo di non vedere le ingiustizie più istituzionali e liberali che si consumano in ambienti più circoscritti come il mondo accademico, dove le difficoltà degli avanzamenti di cattedra per gli afroamericani, specie se donne, sono davvero immani.
La spirale di proteste e disordini ha così ricordato agli americani -come già d’altronde periodicamente accade- uno dei loro peccati originali, la “color line” della discriminazione e del razzismo identificata da generazioni di esponenti della lotta per i diritti civili da fine Ottocento a oggi.
A correre oggi verso l’uguaglianza tenendo stretto il testimone degli innumerevoli leader della “la causa nera” come Martin Luther King, Rosa Parks, Malcolm X, Jesse Jackson, Angela Davis e Maya Angelou, è il movimento dei Black Lives Matter che sta lottando contro l’afrofobia persistente e la apartheid moderna.
Il diritto alle pari opportunità sta diventando ora più che mai così urgente che la protesta si sa allargando a macchia d’olio anche in Europa, con l’intento di dare voce a tutte le minoranze inascoltate
In Italia, ad esempio, oltre alle manifestazioni contro le discriminazioni e la presenza di Ong per l’accoglienza e la tutela di immigrati africani (come Open Arms che col suo rimorchiatore ha contribuito a salvare in mare, stima l’associazione, 6 mila migranti in due anni), in questi giorni è stata imbrattata a Porta Venezia la statua del giornalista Indro Montanelli, considerato colonialista e razzista, dopo le sue dichiarazioni di un matrimonio contratto con una bambina etiope negli anni ’30, così come al di là dell’Oceano stanno crollando altre statue di personaggi storici considerati rappresentati di genocidi e crimini di sangue, come Thomas Jefferson e Cristoforo Colombo.
Le manifestazioni contro il razzismo non sembrano più arrestarsi, anzi aumentano le genuflessioni in nome di una fratellanza universale, mentre i primi voli militari incominciano a sorvolare le marce, con l’intento di spaventare il corteo che sembra intenzionato però anche a spingersi verso il sanguinoso caos della guerra civile.
E mentre gli Stati Uniti d’America bruciano, dilaga sempre più la speranza che questo atto di ribellione contro il razzismo induca davvero la secolare, esecrabile mentalità conservatrice a danzare il suo ultimo canto del Cigno.
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