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FIGLIO MIO MA QUANTO MI COSTI? ECCO UN EXCURSUS DEI BAMBINI NELLA SCALA SOCIALE

ALL’INIZIO DEL NOVECENTO SI PENSAVA CHE I BAMBINI NON AVESSERO UN’ANIMA, OGGI GRAN PARTE DEI RISPARMI DELLA FAMIGLIA SONO DESTINATI ALLE LORO ESIGENZE

Nel saggio Padri e figli, lo storico Philippe Ariès traccia il percorso fatto dai bambini nella scala sociale. I bambini sono passati dal non avere un’anima, dal rappresentare un essere in transizione ad alimentare oggi un volume d’affari di 3,3 miliardi di euro, che rappresenta la spesa complessiva delle famiglie italiane dedicata ai bambini dai 3 ai 13 anni[1]. Proviamo a spiegare questo salto.

Fino al Seicento i bambini sono vestiti come piccoli adulti, solo dopo iniziano ad avere un abbigliamento dedicato, si tratta di un abito in voga un secolo prima a rimarcare come non sia necessario pensare qualcosa di totalmente nuovo per essi. Il vestiario serve a differenziare i piccini dai più grandi e per molti anni ciò ha riguardato solo il sesso maschile e le famiglie nobili e borghesi.

Contemporaneamente viene affinata una certa idea di infanzia, fino al settimo anno d’età circa, caratterizzata dall’emulazione dell’età adulta – i primi giocattoli riproducono oggetti per adulti in miniatura, il cavallo di legno, la bambola – e da una dimensione di innocenza che va lasciata libera di essere. Ancora per poco però, “padri e madri si ripromettono di correggerli quando saranno giovani, ma sarebbe più opportuno fare in modo che non ci fosse nulla da correggere[2].

Non che nella società medievale i bambini fossero trascurati o abbandonati ma manca ancora una certa affezione all’infanzia tanto che, appena può vivere senza le cure costanti della madre e della nutrice, il bambino appartiene a tutti gli effetti all’età adulta. Sembra che l’alto tasso della mortalità infantile tenga in stand-by il legame tra genitori e figli fino al momento in cui il bambino non sopravvive a questa fase di grande incertezza demografica. C’era un sentimento nei confronti dell’infanzia molto diverso da quello che conosciamo oggi, e allo stesso tempo una somma di sentimenti inespressi.

Basta poco perché l’innocenza diventi sinonimo di debolezza, ad un certo punto ci si rende conto che il bambino deve essere educato e la sua personalità plasmata, i maestri sono responsabili delle conoscenze e anche dello spirito degli alunni. Nel Settecento una certa preoccupazione per l’ordine e la gerarchia introduce nei collegi i principi educativi della sorveglianza, delle punizioni, soprattutto corporali, e della delazione. La disciplina scolastica si addolcisce nel corso dell’Ottocento quando si inizia a preferire un’azione educativa che risvegli nel bambino il senso della responsabilità dell’adulto, non a umiliare la sua impreparazione alla vita.

Quell’impronta di debolezza propria dell’infanzia impressa nel nostro immaginario si è preservata fino ad oggi. Ciò che si è perso nel tempo è quel passaggio repentino da infantegiovine che in tenera età squarciava la bambagia, la stessa che invece oggi stiriamo come una coperta troppo corta fino all’adolescenza.

L’avvento delle grandi città nell’era dell’industrializzazione contribuisce a creare una rappresentazione dello spazio urbano come insicuro, violento e pericoloso e fa sì che ai bambini venga progressivamente preclusa la possibilità di giocare autonomamente all’aperto, fuori dallo spazio domestico. Per colmare questo vuoto di libertà e di intrattenimento i consumi delle famiglie si sono diretti su giocattoli, libri, TV, videogiochi e su parchi o acquari, per offrire ai figli “avventure controllate”.

Qualche anno fa viene pubblicizzato un modello di scarpe per bambini con il gps integrato. Il localizzatore avvisa i genitori con un alert sul telefono se il bambino oltrepassa un “perimetro” di sicurezza impostato. La promessa è fatta: “stare tranquilli” quando il figlio esce di casa, anche quando – può sembrare assurdo – esce con i genitori.

E’ davvero utile una modalità di controllo così totalizzante, o meglio, è necessaria? Il contesto in cui viviamo è così profondamente mutato da richiedere tanto rigore o sono io ad essere rimasta un’epoca indietro?

L’ultimo spot delle scarpe con il localizzatore risale al 2016, ed è seguita poi dal lancio sul mercato del braccialetto e dell’orologio “intelligenti”. Oggetti che offrono il miraggio della libertà sorvegliata, quello descritto da Gilles Deleuze nel saggio “La società del controllo”: una città dove ognuno passa da uno spazio di reclusione ad un altro – la casa, la fabbrica, la scuola – con rigide leggi da rispettare. In effetti, se mettiamo a confronto due generazioni di bambini, quelli cresciuti “per strada” e quelli con i “videogames” in tasca, i primi sembrano maggiormente esposti al pericolo perché si trovano in un ambiente incontrollabile mentre i secondi, stando tra quattro mura, trasmettono maggiore sicurezza. E’ vero che se i primi corrono dei rischi soprattutto riguardo all’incolumità fisica, i secondi rischiano danni psicologici dovuti alla dipendenza dallo schermo. Crediamo ancora che i danni fisici – un ginocchio sbucciato, una caduta dalla bici, un cazzotto tra amici – siano più gravi di una eventuale dipendenza dai videogiochi o dell’interferenza che può svilupparsi tra gioco e realtà, ad esempio una percezione normalizzata della violenza o di altre dinamiche relazionali?

I bambini sono passati dal non-essere – nell’arte, nell’indagine psicologica e nella vita quotidiana – ad occupare un piedistallo nello scaffale più alto della libreria a guardare la vita a cristalli liquidi. Siamo approdati ad un altro modo del bambino di non-essere? Controllare infatti significa non avere fiducia nel ragazzo ovvero non riconoscere le sue potenzialità di affrontare una data situazione, non-essere. Il contrario di controllo in questo caso non è quindi “libertà” ma fiducia. Ad ogni modo l’illusione del genitore di governare la vita del ragazzo è destinata ad infrangersi nel momento in cui egli affronta la strada, la scuola, il lavoro per affermare la propria autonomia di azione e di pensiero. Allora il “controllo” rimane un mostro in agguato per le nostre menti. Ciò che ci rende liberi, oggi come nel saggio di Deleuze, è la capacità di riconoscere ciò a cui le nostre menti sono o saranno asservite. 

[1]https://www.bva-doxa.com/  Shopping per bambini: un affare da 3,3 miliardi

[2]Antoine de Courtin, Nouveau traité de la civilité qui se pratique en France, parmi les honnestes gens, Parigi 1671

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