Viviamo in un periodo storico in cui la popolazione anziana ha oramai numericamente surclassato la fetta di unità giovanili.
Nonostante questo, però, siamo diventati una società che respinge, rimuove e ha ribrezzo della vecchiaia.
Il totem paradossale dell’età come tabù e dell’ossessione dell’eterna giovinezza, sta facendo diventare la vecchiaia, secondo quanto analizzato da Loredana Lipperini in “Non è un Paese per vecchie“, una piccolissima zona dove vengono relegate presenze invisibili prima della definitiva sparizione.
In ambito letterario, il tema della vecchiaia è stato invece trattato in maniera complessa e articolata dagli autori greci e latini.
In epoca greca arcaica la prima figura di vecchio in cui ci imbattiamo è di certo quella mitologica di Omero, l’aedo cieco che è ritratto nel suo busto marmoreo del 460 a.C. come kalòs géron, ovvero come un uomo barbuto scavato nei lineamenti dall’avanzare dell’età ma visibilmente saggio e dignitoso.
Nei poemi omerici non è possibile isolare un’idea univoca della vecchiaia: all’anziano saggio incarnato da Nestore nell’Iliade corrisponde, ad esempio, il vecchio sventurato Laerte nell’Odissea.
La “buona vecchiaia” è, in Omero, una concessione divina non elargita a tutti che comporta rispetto e riverenza sociale poiché la debilitazione fisica è compensata e controbilanciata dalle virtù dell’esperienza come la saggezza e eloquenza.
Anche nella poesia di Esiodo l’avanzare dell’età non è concepita come negativo processo di disfacimento fisico ma fase naturale del ciclo vitale, come testimoniato dal buon vecchio Nereo.
A riflettere invece sull’impietoso trascorrere del Tempo troveremo le lamentazioni della poesia arcaica di Alcmane, Tirteo, Mimnermo, Anacreonte e Solone.
Se Alcmane descriverà infati la vecchiaia immedesimandosi nel senex nostalgico, Tirteo pone l’accento sul tema della tutela degli anziani da parte dei più giovani, Mimnermo, estremo e categorico, auspica di morire entro i
sessant’anni mentre Saffo è pronta ad accogliere il deperimento corporeo con pacificata rassegnazione.
A contrastare il rilievo politico che gli anziani godevano a Sparta, fruitori di un proprio consiglio da dove dispensavano il buon esempio o all’occorrenza persino la giusta punizione verso i più giovani (la gerusia), si eleverà la voce del filosofo Platone che, benché considerasse la vecchiaia come un’opportunità di accrescere le proprie virtù interiori rispetto all’incalzante declino fisico, non ravvisa nella senilità un valore in sé, ritenendo che invecchiare non fosse necessariamente sempre garanzia di saggezza.
Anche per Aristotele la senilità è sempre negativamente condizionata nell’intelletto e nel carattere dalla phthìsis (la debolezza fisica), quella, “bieca e triste età dell’odio” citando Euripide che sarà poi fortemente ridicolizzata negli aspetti più grotteschi -anche se alla fine mai denigrata- nelle commedie di Aristofane.
Nel primo periodo della Repubblica romana, nel Senato (da senex, “assemblea di anziani”) è di fatto presente un predominio di illustri e saggi anziani, una gerontocrazia non solamente politica ma altamente presente in molteplici aspetti della società latina i cui pilastri sono infatti i pater familias, gli autorevoli e saggi capi delle gentes e il culto dell’iper-senex, gli antenati ricordati nei cortei funebri sia oralmente che attraverso le imagines maiorum (maschere che riproducevano le fattezze del compianto).
Nel 44 a.C., Cicerone, all’età di 62 anni, compone uno dei più rinomati trattati sulla senescenza della Letteratura classica: il “Cato maior de senectute“.
Dedicato al suo amico sessantaseienne Tito Pomponio Attico per consolarlo del comune onus senectutis (il fardello della senescenza), nell’opera Cicerone inscena un dialogo tra il giovane Scipione Emiliano e l’ancor più giovane Lelio. Catone difende le virtù della vecchiaia, citando gli esempi di illustri maiores (Platone compreso) e cercando di confutare i luoghi comuni negativi sulla vecchiaia, come la principale errata convinzione che una certa età sia incompatibile con una vita attiva.
Il Censore è perciò tratteggiato come un modello di dignitoso vecchio anche quando non manca di riflettere su certe caratteristiche negative ricorrenti nella terza età, come la scontrosità, l’irascibilità e l’avarizia, forse però più che altro ascritte, aggiunge al personale carattere che alla senescenza in sé.
Nella commedia romana di Terenzio e Plauto i vari esempi di senex si contrapporranno al modello idealizzato del Catone ciceroniano e si caratterizzano invece nella ridicolaggine in chiave comico-grottesca del senex amator (patetico farfallone).
Lo stereotipo di gran lunga più comune, già ampiamente diffuso nel mondo greco ma che la letteratura latina riprende e rielabora senza interruzione, è quello della vecchia seduttrice.
Orazio e Marziale ne danno i ritratti più memorabili, donne che legano il proprio disfacimento fisico a una sfrenata e persino disgustosa libido.
Ne è esempio l’impietosa descrizione con denti anneriti, capelli radi e seni cascanti di Vetustilla da parte di Marziale, un personaggio che, seppur oramai prima di ogni attrattiva, è ancora alla disperata e ridicola ricerca di un uomo in grado di soddisfarla sessualmente:
Hai visto trecento consoli, Vetustilla,
hai tre capelli e quattro denti, il petto di una cicala,
le gambe e il colorito di una formica;
la tua fronte ha più pieghe di un mantello
e i tuoi seni sono come tele di ragno
[…]
hai l’odore dei caproni
il fondo schiena di un’anatra magra
e il tuo sesso ossuto batterebbe un filosofo cinico decrepito.
Molto spesso poi, in vecchiaia all’amore per gli uomini si aggiunge quello per il vino, visto che, a detta di Ovidio, soprattutto per le donne questa è considerata proprio vinosior aetas (“l’età del vino“) e non a caso sarà proprio questa immagine della vecchia beona ad entrare addirittura a far parte addirittura di proverbiali modi di dire come ad esempio il detto l’«anus rusum ad armillum» (“la vecchia torna alla bottiglia“) significava ricadere in una invincibile inclinazione.
Anche Petronio rappresenta nel “Satyricon” quasi esclusivamente vecchie insolenti e libidinose, come le due anziane fattucchiere Enotea e Proseleno che cercano di risvegliare la virilità di Encolpio con le loro mostruose arti magiche o l’avvinazzata Leonessa, vecchia schiava del “Curculio” di Plauto che per il vino
innalza un vero e proprio canto d’amore o la mezzana Dipsas, l’«Assetata» vecchia degli “Amores“, alla quale, come scrive Ovidio, «il nome viene dai fatti», dal momento che non c’era mattina che la ritrovasse sobria.
Persino nel caso della Sibilla, la più celebre profetessa del mondo romano, vecchiaia e sapere possono intrecciarsi al motivo della seduzione secondo la versione che di lei ne offrirà Ovidio nel XIV libro delle “Metamorfosi“.
Qui l’anus per eccellenza ricorda di dovere la sua proverbiale vecchiaia all’amore che, da giovane, la sua bellezza aveva saputo suscitare nel dio Apollo: sperando di poterne avere l´amore, il dio le ha infatti concesso il dono di vivere tanti anni quanti sono i granelli di un pugno di sabbia.
La Sibilla ovidiana perciò, oramai “vecchia e tarda”, enormemente rimpiange la felicior aetas della gioventù, cancellata dalla aegra senectus dei settecento anni che già ha vissuto, e soprattutto brucia dalla rabbia e l’invidia per la certezza che nessuno più, vedendola così decrepita, possa provare attrazione sessuale per lei come un tempo, quando persino un dio l’aveva fortemente desiderata.
I romani del periodo imperiale faranno dal canto loro proprio il modello passato dei greci e lo ripropongono in un vero e proprio culto, associando l’archetipo del senex a quello dell’intellettuale filosofo e saggio, come Virgilio che recupererà la figura omerica della senescenza infiacchita nel fisico ma comunque accettata nella sua completezza rappresentata in Anchise o come Orazio e Giovenale che esalteranno sì il senex per la sua levatura spirituale ma ne evidenzieranno anche la deformità fisica dovuta ad un’età <tarda, imbecille e avara> (“Satire”, Orazio).
Ben prima di arrivare alla concezione della Chiesa cristiana del senux bonus, l’asceta esempio di vita sobria e devota, nel “De brevitatae vitae” Seneca sottolinea come la differenza sostanziale nel diventare vecchi risieda semplicemente nel come si decide di vivere l’età che avanza, magari lasciandosi alle spalle i turbamenti e le inquietudini giovanili:
Quanto è dolce l’aver stancato le passioni ed essersele lasciate alla spalle!
Il vecchio, come osserva il ciceroniano Catone, dovrà sforzarsi il più possibile di restare autorevole (se non addirittura autoritario), attivo e presente, e di mantenente i contatti e le relazioni pubbliche.
Infiniti continuerebbero a essere gli esempi di scritti che la Letteratura greco-latina ha dedicato alla tarda età con l’intento, così come rivelato da Cicerone nel “De Senectute“, di lenire la sofferenza e la tristezza che l’avanzare degli anni inevitabilmente porta con sé.
La letteratura classica può essere quindi considerata l’unica ancora in grado di accarezzare o divertire, attraverso la sua consolatio cartacea, chi si appresta a camminare lungo il suo viale del tramonto.
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