Quando quel 9 novembre 1989 il muro di Berlino venne abbattuto, per la prima volta l’Occidente riuscì a interfacciarsi con le quotidianità degli abitanti del blocco Est che si animavano sotto la protettrice ala della dittatura comunista.
In quasi tutti gli otto Paesi che si erano raccolti nel “Patto di Varsavia” (Unione Sovietica, Ungheria, Romania, Polonia, Germania dell’Est, Cecoslovacchia, Bulgaria e Albania) ovvero in un’alleanza volta a difendere il socialismo internazionale dalle forse capitalistiche, la vita dei cittadini seguiva delle traiettorie ben stabilite dove la propria libertà individuale, negata in nome di una ferrea identità collettiva, sarà scoperta in prima battuta solamente a partire dagli anni Novanta col crollo dell’URSS, come magistralmente raccontato da Svetlana Aleksievič in “Tempo di seconda mano“.
Ma come si viveva ai tempi dell’Unione Sovietica?
A seguito della Rivoluzione bolscevica l’obiettivo del governo comunista di sradicare lo stile di vita elitario praticato da alcuni ristretti gruppi di persone nella Russia imperiale era stato raggiunto trasformando le sfarzose case di Mosca e Pietroburgo in “Kommunalki“, appartamenti tutti rigorosamente uguali tra loro con servizi e cucina in comune e solo una stanza lasciata in gestione dal Partito ai vecchi proprietari per la loro famiglia e le loro cose.
Durante la fine degli anni Trenta fino agli anni Cinquanta, le “stalinki“, i monumentali palazzi staliniani in stile neoclassico, erano invece appartamenti composti da tre, quattro stanze divisi in due differenti lotti, dove agli appartamenti comuni per lavoratori (i “kommunalki“, appunto) si erano aggiunti quelli destinati alle élite (funzionari di partito e dei servizi segreti, dirigenti, alti gradi dell’esercito ed eminenti rappresentanti dell’intelligencija tecnica e artistica).
Sarà poi Nikita Krusciov a fare in modo che le tipologie abitative edilizie ritornassero davvero tutte a rispettare l’ideologia comunista quando decise di spostare anche i membri più in vista del Partito nelle costruzioni a buon mercato in acciaio e in seguito in cemento armato di tre, quattro piani e composte da piccole appartamenti, le “khrushchevki“.
A rendere lo spazio urbano ancora più volutamente anonimo e monotono ci penseranno qualche anno dopo i successivi grattacieli grigi da nove ai diciassette piani chiamati “brezhnevki“ .
Il Partito, insegnando ai cittadini sovietici che ogni comfort altro non era che una forma di filisteismo, imponeva di aderire a un ferreo pauperismo collettivo lontano da qualsiasi velleità personale e singolarità creative, nonostante ogni agenzia statale e ogni fabbrica avessero al loro interno un centro culturale dove avevano luogo concerti, eventi politici e sociali, oltre a programmi gratuiti per i bambini e spazi dedicati all’arte del regime e allo sport.
In merito alle attività ricreative per i più piccoli, durante le vacanze estive i bambini sovietici entravano negli Ottobrini (dai 6 ai 9 anni) o nei Pionieri (dai 9 ai 13 anni).
Questi campi non erano di certo obbligatori ma tutti i ragazzini volevano parteciparvi perché aspiravano ardentemente a entrare in seguito nei “Komsomol“, le organizzazioni giovanili che gestivano le attività sociali di volontariato come aiuto agli anziani, ai contadini per il raccolto o per la pulizia dell’ambiente.
In merito alla scuola, dopo la Rivoluzione d’Ottobre i bolscevichi promossero, per liquidare l’analfabetismo tra la popolazione (alfabetizzata solamente al 21% nel XIX) la “Likebez“, ovvero una riforma radicale del sistema educativo sovietico che avrebbe dovuto prestare particolare attenzione alla matematica e alle scienze naturali.
Per gli studenti sovietici e le loro famiglie, perciò, l’istruzione non ha mai rappresentato un costo.
In generale tutto il sistema rosso funzionava sulla meritocrazia comunista ovvero che qualsiasi risultato nello studio era indirizzato allo sviluppo e alla crescita di un collettivo e di certo non per fini carrieristici.
Dopo l’asilo (3/6 anni) iniziava un ciclo di studi “base” di 9 anni e chi avesse voluto continuare a studiare avrebbe potuto liberamente farlo, visto che anche l’università era gratuita.
I programmi didattici comprendevano materie come il marxismo-leninismo e la Storia della Grande Madre Russia e l’insegnamento aveva anche finalità produttive ovvero ciascuno sceglieva il proprio percorso successivo di studi in base alle priorità economiche dello Stato, un proseguimento che, quindi, sarebbe stato condizionato oltre che sui titoli accademici anche dall’aderenza ai requisiti sovietici della fedeltà politica, dell’appartenenza alla classe operaia e dell’ateismo.
Visto che ogni individuo doveva contribuire alla collettività principalmente svolgendo i suoi compiti con dedizione e responsabilità, quei pochi furbi che provavano a sottrarsi al loro obbligo venivano arrestati e condotti in delle colonie di lavoro dove avrebbero poi ricevuto un compenso per l’attività svolte durante la coercizione solo dopo il ritorno a casa, per punizione ovviamente una paga inferiore rispetto a quella degli operai.
La fabbrica e i sindacati provvedevano alla cura di tutto ciò che era necessario al lavoratore, dal vitto (con ticket e buoni) all’alloggio, dal tempo libero (corsi di ogni tipo, sport e arte) alle vacanze (ogni azienda aveva convenzioni su complessi o alloggi turistici sparsi in tutta l’URSS), fino spesso addirittura ai trasporti coi quali era necessario spostarsi.
Oltre alla salute psicofisica dei lavoratori, anche l’emancipazione femminile era tenuta in gran conto sotto il regime comunista, così come raccontato da Anna Louis Strong in “L’età di Stalin“.
Nel 1919, i bolscevichi costituirono uno specifico dipartimento del Partito per le attività autogestite delle lavoratrici, lo “Zhenotdel“, abbreviazione, in russo, del “Dipartimento per il lavoro fra le donne”.
Le due armi principali dello Zhenodtel erano l’istruzione e il reclutamento: una squadra aveva il compito di istruire le donne sul loro ruolo nella nuova società e invece un’altra squadra quella di inserirle dopo nella “macchina sovietica” come lavoratrici.
Alle lavoratrici erano concessi numerosi diritti già a partire dal 1918, come quattro mesi di gravidanza e congedo di maternità con stipendio pieno e la possibilità di soggiornare fino a un anno a casa con il bambino con il lavoro salvaguardato che diventava via via più leggero al termine della gestazione.
Con la Rivoluzione era stata infatti promossa l’idea che l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro fosse un elemento chiave per la loro emancipazione, tanto che in URSS il numero lavoratrici aumentò nel corso degli anni (ad esempio nel 1975 le donne erano il 51% dei lavoratori, tre volte e mezzo in più rispetto al 1940).
La specificità del lavoro delle donne venne anche protetto prevedendo un’età di pensionamento anticipato rispetto agli uomini (55 per le donne, 60 per gli uomini) e con la specifica presenza minima di loro numerosi settori: 50 nel settore industria, 45 a radiologia, ospedalieri e alcune professioni del teatro.
Inoltre già nel 1920, di fronte alla disastrose conseguenze dell’aborto clandestino (la metà delle donne soffriva di infezioni successive e ne moriva il 4%, nonostante fin dal 1918 fosse introdotto un congedo di tre settimane con salario intero in caso di aborto spontaneo o indotto) il governo sovietico legalizzò l’aborto in ospedale pubblicando un decreto per “proteggere la salute delle donne e che il metodo repressivo in questo campo non raggiunge questo obiettivo”.
Nella DDR si incoraggiavano anche, con entusiasmo, il sesso prematrimoniale e il nudismo, poiché lo Stato laico era ben felice di scoraggiare il moralismo cristiano favorendo ad esempio, tra i tedeschi dell’Est, un atteggiamento rilassato nei confronti della propria corporalità, come raccontato nel vendutissimo best seller degli anni Cinquanta “Il nuovo libro del matrimonio” che promuoveva la sperimentazione del sesso prematrimoniale tra giovani dai diciannove ai venticinque anni.
Alla domanda formulata nel dicembre 2018 in un sondaggio del Centro Levada, “Rimpiangi il crollo dell’URSS?” , due terzi della popolazione russa (66%) ha risposto di Sì.
Le motivazioni dei cittadini sovietici di essere ancora così fortemente “fedeli alla linea” sono forse dovute a quel sentimento di orgoglio -e di nostalgia- di appartenere a un regime che offriva loro un forte senso di solidarietà e sicurezza, consapevole dell’importanza della cultura e della tutela dell’uguaglianza sociale, nonostante quegli infiniti banconi pieni di latte non avrebbero mai lasciato neanche un piccolo spazio a barattoli di Ketchup e lattine di Coca-cola.
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