La riflessione sul politically correct sorge spontanea: la corrente di pensiero che modifica il linguaggio ma non la sostanza, tanto che in nome di un fittizio rispetto bisogna trovare un nuovo nome a posizioni lavorative come il netturbino o il bidello (rispettivamente modificati in “operatore ecologico” e “collaboratore scolastico”), mentre per quanto riguarda retribuzione e tutele lavorative possiamo senza dubbio soprassedere.
Un atteggiamento, con tutta evidenza, ipocrita. Ma attenzione, perché usare il termine “ipocrita” per definire qualcosa, sia esso un individuo o un comportamento, è già assimilabile ad un’offesa, e quindi portatore di un possibile turbamento.
Ed è questa la reale riflessione che andrebbe fatta sul politically correct, che altro non è in questi termini che censura. Censura di tutto ciò che può turbare. Chiunque. E, quindi, su cosa riflettere? Sull’evidenza che qualsiasi cosa potrebbe causare turbamento e che questa tendenza di ragionamento porta ad innumerevoli fraintendimenti ipocriti.
Tutto ciò che è stato fatto, pensato e scritto in passato viene “ricontrollato” nell’estrema ricerca della correttezza formale, passato attraverso i filtri del razzismo e del sessismo e condannato a posteriori. Si cambia nome alle vie, si imbrattano monumenti e lapidi, si abbattono statue, si tolgono dal commercio libri e film, si cambiano i finali delle opere, in una corsa delirante alla correttezza.
Ma quando e come nasce il politically correct?
L’espressione è nata negli anni ’70, dagli ex 68tini, e si incentrava sul tipo di linguaggio da utilizzare per garantire il rispetto verso persone appartenenti a minoranze, a differenti culture, con situazioni di disabilità, di esclusione sociale o di maggiore debolezza nel potere contrattuale e nell’immagine.
Il linguaggio voleva rappresentare un atteggiamento di accettazione e di inclusione da parte dei “politicamente corretti” per sancire una alleanza politica con le diverse minoranze.
L’accettazione della minoranza è però solo formale e linguistica. Si modifica il linguaggio, ma non i diritti civili. Si difendono ideali stereotipati, ma non cambiano le forme di interazione sociale.
Nel 1993, negli Stati Uniti, quattro professori di legge pubblicarono il manifesto “Words that wound. Critical race theory, assaultive speech and the first Amendament“, in cui analizzavano il linguaggio aggressivo come una tra le peggiori manifestazioni di razzismo, arrivando a suggerire come soluzione il superamento del primo emendamento, fondamentale garanzia delle libertà di culto e di espressione, e ponendo perciò delle restrizioni sul linguaggio.
Davvero correggere “Gesù Bambino” in “Perù Bambino”, come accaduto in una scuola primaria friulana, è un modo per non offendere bimbi e famiglie di altri credi? Davvero censurare forme d’arte, ci farà dormire sonni tranquilli?
Il primo esempio di politicamente corretto lo si trova nella religione cristiana, nello specifico nella questione Barabba, che vede innanzitutto una strumentalizzazione del popolo, della democrazia e, dulcis in fundo, delle parole.
E quindi anche trasformare le parole in fatti e azioni concrete.
Il politicamente corretto fabbrica pregiudizi seriali: la loro applicazione esime dal ragionare, risparmia la fatica del giudizio critico. E infonde a chi lo usa una sensazione di benessere etico, una presunzione di superiorità sugli altri. Ed è qui che si crea l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture e linguaggi, il silenzio e la rassegnazione.
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