Secondo la legge n.184 l’affido è un’ istituzione che permette a una famiglia, a una coppia o a un singolo di accogliere con sé, per un lasso di tempo limitato, un minore che si trova in momentanea difficoltà familiare.
Di questo arioso accudimento verso quei bambini che hanno diritto di non perdere il baricentro del proprio equilibro, in Italia se ne parla ancora ben poco.
Ecco perché con “Figlia del cuore” (Marcos y Marcos) la scrittrice e attrice Rita Charbonnier è stata non solo in grado di romanzare con melodica delicatezza la storia vera di un affido, quella della piccola Ayodele accolta tra ansie e speranze da Sara, ma anche di riportare l’attenzione del lettore su questo attualissimo tema di sconfinato amore.
Oggi abbiamo intervistato l’autrice Rita Charbonnier per voi.
“Figlia del cuore” è la toccante storia di un affido, un percorso d’amore che in Italia è ancora poco esperito sia a causa di una diffusa cattiva informazione sul suo iter, sia delle persistenti congestioni burocratiche da superare. Cosa significa prendere un bambino in affido familiare?
Credo che significhi dare aiuto a un piccolo essere umano che ne ha bisogno, e ricevere in cambio un mondo. Questo è ciò che mi hanno detto le affidatarie che ho intervistato per scrivere il romanzo. L’affido può essere un’esperienza straordinaria non solo per il bambino che ha bisogno di essere seguito e sostenuto, ma anche per l’adulto che decide di prenderlo con sé per il tempo necessario. Certo, non sempre le cose vanno lisce; possono sorgere diverse difficoltà. Ma ci si mette in gioco veramente, si fa spazio nella propria vita a un altro essere umano, e comunque vada sarà stata un’esperienza importante.
L’accoglienza è un gesto di apertura non solo individuale ma anche sociale. Obani e Ayodele sono infatti immigrati nigeriani di quella seconda generazione ancora in bilico tra il bisogno di preservare le tradizioni di un mondo perduto e l’importanza di domare una nuova lingua per ricucire a mano una nuova identità. Come ha scelto di affrontare questo particolare tema all’interno del suo romanzo?
“Figlia del cuore” è una storia sull’appartenenza. A una madre, a una famiglia, a uno stato, a un continente. Una storia sul desiderio, quindi, di accogliere e di essere accolti; sul riconoscimento di sé anche attraverso la relazione di reciproca accoglienza con l’altro. Sono questioni importanti, che mi riguardano e che in qualche modo riguardano ognuno di noi. Desideravo moltissimo occuparmene.
Per superare la sua diffidente chiusura, la protagonista del romanzo viene spronata a frequentare un corso domenicale di teatro. Lei oltre al diploma presso la Scuola di teatro Giusto Monaco ha studiato anche pianoforte e canto. Al giorno d’oggi è quindi ancora possibile parlare di valenza terapeutica dell’Arte?
Credo che se ne possa parlare al giorno d’oggi così come se n’è parlato in passato. Le attività artistiche sono necessarie, sono ossigeno per l’anima e per il corpo, ognuno di noi dovrebbe praticarne almeno una. Suonare uno strumento, cantare in un coro, dipingere, danzare o scrivere poesie; oppure fare un corso di teatro, come Ayodele. La madre affidataria pensa che un’attività creativa di gruppo la indurrà gradualmente a fidarsi del prossimo. Ma poi le cose prendono una piega diversa…

In “Figlia del cuore” lei ha deciso di evitare uno stile melodrammatico preferendo pennellate lievi e a tratti persino scanzonate. Forte anche della sua esperienza televisiva nel gruppo Avanzett durante gli anni della trasmissione satirica “Avanzi”, cos’è per lei l’ironia?
L’ironia è un tipo particolare di sguardo sul mondo, un tratto del carattere che si ha o non si ha. L’ironia non si impara, è pressoché innata; si può giusto tentare di affinarla. Nel romanzo ho scelto di far parlare la protagonista in prima persona, di farle raccontare la propria storia, e di farglielo fare in modo molto schietto. Ayodele non cerca l’approvazione di nessuno, a lei le buone intenzioni fanno venire l’orticaria, lei si burla di tutti e anche di sé, della propria condizione. Ecco, quel tipo particolare di sguardo sul mondo, lei ce l’ha.
Così come nelle sue precedenti opere, “La sorella di Mozart”, “La strana giornata di Alexandre Dumas” e “Le due vite di Elsa”, il suo sguardo sembra concentrarsi particolarmente sull’universo femminile. Se potesse quindi incontrare uno o più artiste di talento su di una fumante tazza di caffè quali vorrebbe che fossero? E perché?
Mi vengono in mente solo artiste del passato… forse perché nella realtà non potrei mai incontrarle, e questa è una buona occasione per fantasticare. Mi piacerebbe incontrare Eleonora Duse. Capire cosa avesse di magico quella piccola donna, così da farla passare alla storia come una delle più grandi attrici mai esistite. Ovviamente mi piacerebbe, oltre a prenderci il caffè, sentirla recitare… nella seconda metà dell’Ottocento l’arte della recitazione doveva essere qualcosa di molto diverso da come la intendiamo oggi. Se potessimo viaggiare nel tempo e ritrovarci nella platea di un teatro dell’Ottocento, sentir recitare quegli attori, probabilmente, ci farebbe sorridere; troveremmo i loro toni e i loro gesti esagerati.
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