Una donna in piena crisi sentimentale si lancia nel vuoto del Grand Canyon durante una pausa di un viaggio organizzato ma invece di finire in Paradiso si ritrova fantasma sul sedile di una vecchia Ford a fare da spettatrice proprio alla vita dell’uomo che l’ha sedotta e abbandonata.
Inizia così “O d’amarti o morire” (Polidoro Editore), luminoso e sorprendente esordio, fresco come un bicchiere d’acqua a Ferragosto, di Francesca Guercio.
La nostra intervista all’autrice di questo imperdibile romanzo.
Com’è nata l’idea del suo folgorante esordio “O d’amarti o morire”?
Da un dolore in forma di ingombro funesto che a un certo punto, una sera, ha messo le ali e si è alzato su uno scenario che finora ho visto soltanto nei documentari del National Geographic. Ho cominciato a ridere! Sono una cinestesica-visiva: ho davvero guardato giù nel baratro, ho avvertito il vento sulla pelle e un groppo che si staccava da qualche profondità del corpo per risalirlo in fretta. Nell’insieme, l’esperienza mi è sembrata più grottesca che liberatoria. Così ho aperto un file word e ho iniziato a digitare di quell’ingombro e di quel volo per spostarli fuori di me. Sentendola usare l’aggettivo “folgorante” ho pensato che si accordasse bene all’intera esperienza, se ricostruisco quel momento.
Se come ha scritto l’amore è “un arnese buffo” perché assume la forma di chi lo adopera, quale aspetto assume per la protagonista del romanzo quando approderà, attraverso un percorso singolare, alla consapevolezza di aver vissuto all’ombra di una storia sentimentale impossibile?
Un putipù. Ovvero la caccavella della canzone di Carlo Concina; che adesso mi viene in mente in una versione di Nino Taranto, con la paglietta a tre punte sulla testa.
Molto spesso ha usato dipingere i contorni di alcuni dei suoi personaggi tramite le loro isoglosse linguistiche di appartenenza, come il pugliese e il lombardo. Il gioco verbale in vernacolo è davvero in grado di liberarli dalle proprie pulsioni inconsce?
Non lo so. Credo che, se avessero potuto scegliere, molti di loro per liberarsi dalle pulsioni inconsce avrebbero preferito un sacco da boxe. Ma non sono una scrittrice democratica. Una scrittrice alla Pirandello, abituata a «dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi». Adesso che mi ci fa pensare ho trattato i miei attori con piglio dispotico. In ogni caso, già che siamo in tema di metafore pirandelliane, mi viene da dire a proposito della sua domanda che quando il protagonista ammette di “vedersi vivere” confessa pure, con amarezza, che nemmeno più il molisano della propria infanzia riesce a fare da antidoto al proprio veleno esistenziale.
La freschezza di “O d’amarti o morire” nell’attuale panorama editoriale italiano si respira soprattutto nell’abile ricorso a un ‘umorismo pirandelliano’. In che modo è possibile affinare, come le ha insegnato sua madre, l’arte di raccontare la sfiga usando il sarcasmo?
Mi piacciono molto sia l’osservazione sia la domanda che lei ne fa conseguire e che, naturalmente, visto che continuiamo a tirare in ballo Pirandello ho immediatamente tradotto in: come si impara a rivoltare il cannocchiale? A me, per esempio, è stato insegnato grazie a un esercizio di osservazione attenta e il più possibile equanime degli altri. Penso che ognuno di noi abbia qualche motto familiare che ha accompagnato la propria formazione, no? Ecco, tra quelli che hanno accompagnato la mia c’è una famosa citazione di Metastasio: «Se a ciascun l’interno affanno si leggesse in fronte scritto, quanti mai, che invidia fanno, ci farebbero pietà!». Da qui a relativizzare le proprie pene è un attimo; poi l’affinamento di cui mi chiede può avvenire, per esempio, in botti di buona letteratura, di buon teatro, di buon cinema…
Il suo romanzo è disseminato, con la solita lievità che lo contraddistingue, di saporite molliche di pane di riferimenti teatrali (Čechov e Ionesco, ad esempio) e filmici (da James Stewart a Henry Koster). Che valenza ha quindi per lei l’Arte oggi?
La valenza che hanno tutti i possibili linguaggi dell’umano, credo. Ecco l’ho detto; adesso attendo pacificamente che Schiller m’incenerisca! Insomma, per me personalmente è nutrimento e cifra di vita ma questo non mi autorizza a ritenerla superiore ad altre ispirazioni, funzioni, segni, visioni sul reale, elocuzioni. Mi pare fondamentale che ogni linguaggio sia ugualmente disponibile per chiunque così che ciascuno riconosca, tra i tanti, quello che gli è più congeniale, scelga di accedervi e sia messo in condizione di praticarlo. Forse uno dei nuclei problematici della contemporaneità occidentale rispetto all’arte è che essa viene sottoposta una sorta di censura a priori per motivi legati, in buona parte, alla sconsideratezza dei sistemi pedagogici e, in altra parte, alle distorsioni economiche delle società neoliberiste. Certa materia artistica non ha modo, tempo, spazi e danaro per esprimersi né per venire coltivata con agio; cioè si attuano da un lato un generico distoglimento e dall’altro un’esaltazione di alcune forme rispetto ad altre, così che una vera libertà di autodeterminazione ne risulta azzerata. Vivo questo dato di realtà come una minaccia alla libertà prima ancora che come il segno di un imbarbarimento culturale.
Oltre alla sua vitalità attoriale e regista lei offre assieme al suo collega Federico Levy, attraverso la EUDAIMONIA studio, consulenze filosofiche individuali e di coppia. Come mai in questo complesso periodo storico è necessario un transito nell’indagine interiore dalla psicanalisi alla filosofia?
Veramente io penso non soltanto che un transito dalla psicoanalisi alla filosofia non sia “necessario” ma, di più, che non sia possibile dal momento che le aree di giurisdizione sono diversissime! L’unico tratto comune tra le due vie d’accesso all’indagine interiore è che usano la parola come strumento professionale per accompagnare il fruitore al “benessere”; in un senso peraltro talmente ampio che non riuscirei a illustrarlo nello spazio di un’unica risposta. Filosofia e psicoanalisi sono due discorsi sull’uomo e rivolti all’uomo che possono semmai trovare una complementarietà: se quest’ultimo ha come ambito precipuo di attenzione e di intervento la sfera psichica e inconscia della persona, la filosofia parla alla coscienza dell’uomo e specificamente alla sua sfera “noetica”. L’aggettivo deriva dal greco Nous, termine che storicamente ha una tradizione lunga tanto quanto quella di Psiche e che indica le facoltà umane e le dimensioni d’esperienza che le sono proprie. Psiche e nous sono due dimensioni che, insieme al soma, costituiscono l’intero di ciascun individuo e che, come ognuno di noi sperimenta, si intersecano ma non si sostituiscono. Se mi fratturo una gamba, la figura professionale più congrua per prendersi cura del mio caso è quella del medico; se mi lavo le mani cento volte al giorno canticchiando “tanti auguri a te”, la figura professionale più congrua è quella dello psicologo; se mi sento affranto, ansioso, apatico o sofferente perché la realtà mi opprime e non riesco più a trovare un senso per la mia quotidianità, la figura professionale più congrua è quella del consulente filosofico. Ho semplificato in maniera un po’ rozza: in realtà le competenze di chi si occupa del soma, della psiche e del nous sono più ricche, complesse e raffinate di quanto ho esposto in questa sintesi tuttavia questi esempi possono offrire un quadro di riferimento sufficientemente chiaro. Annovererei tra le facoltà psichiche la percezione, la sensazione, l’affettività primaria e l’empatia, la pulsione sessuale, il “senso” di sé ovvero l’autocoscienza irriflessa… mentre tra le facoltà noetiche metterei la “conoscenza” di sé ovvero l’autocoscienza riflessiva e quindi l’autodistanziamento, poi l’esercizio della volontà e del pensiero critico, intellettuale, estetico, etico, spirituale… Se la mia relazione sentimentale è in crisi e magari comincia a farsi strada l’attrazione per un altro uomo io sono chiamata a operare una scelta tra mantenere la fedeltà fisica e affettiva al patto di coppia oppure accogliere la possibilità del tradimento ed eventualmente anche sciogliere il legame. In questo caso, ciò che viene interrogato in maniera primaria non è la mia psiche bensì il mio nous nella sua funzione di operare scelte: la problematica che mi trovo ad affrontare è di natura squisitamente etica e benché non sia da escludere che qualcuno che abbia ricevuto una formazione in scienze psicologiche sia in grado di attingere alle proprie competenze per entrare in dialogo con giudizi personali di valore morale, certamente chi si è formato in scienze filosofiche è più idoneo a trattare quest’ambito. Il registro di categoria a cui facciamo riferimento noi di “EUDAIMONIA studio”, a questo scopo, prevede l’integrazione tra i linguaggi della cura; ci sono psichiatri, psicoterapeuti, pedagogisti, consulenti filosofici, counselor esistenziali. Poi, nella domanda lei fa riferimento a una grammatica specifica e preziosissima propria dei tanti linguaggi che si rivolgono alla psiche, ovvero alla psicoanalisi; alla quale, per esempio, ultimamente si stanno sottraendo spazio e voce a vantaggio di psicoterapie brevi o strategiche o a orientamento cognitivo-comportamentale o di counseling psicologico. Il che, secondo me, ha ricadute tutt’altro che proficue sulla salute dei singoli e della loro interazione sociale: proprio in una fase storica in cui la civiltà sviluppa gradi di complessità sempre più sofisticati, ci si sta rivolgendo agli individui con semplificazioni antalgiche.
Se potesse incontrare uno scrittore su di una fumante tazza di caffè chi vorrebbe che fosse? E perché?
Marcel Proust. Per ascoltare le parole del suo spirito interrogato in merito al gusto delle «petites madeleines» tuffate nel caffè invece che nel tè o nell’infuso di tiglio.
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