Recitare non per vocazione ma per necessità è quello che capita ogni giorno a Giuseppe Palasciano, giovane attore di Alberobello, in provincia di Bari, che continua a duplicarsi con rigorosa dedizione in numerosi spettacoli teatrali (allestiti da registi come Maurizio Schmidt, Giampiero Solari, Bruno Fornasari, Luca Micheletti o Daniel Gol, ad esempio), nelle sale di doppiaggio e in quei laboratori dove ricorda alle giovani promesse dello spettacolo che nessun impedimento o costrizione potrebbe mai spegnere chi d’arte arde.
Oggi l’abbiamo intervistato per voi.

Giuseppe quando e com’è nata la sua storia d’amore con l’arte attoriale?
Definire una storia d’amore non è molto facile, soprattutto il capire quand’è iniziata ma posso dire di aver deciso coscientemente di fare questo lavoro all’età di 14 anni. Da quel momento è fiorito sulla passione un innamoramento. All’epoca infatti, durante un campo estivo organizzato dal Cral di mio padre a Nocera Umbra, scelsi di frequentare casualmente dopo i corsi di lingua mattutini tra le diverse opzioni a disposizione del pomeriggio (dall’arte della falegnameria a quella della fotografia e del fumetto) il laboratorio di teatro e recitazione. Durante quel primo giorno conobbi due insegnanti che mi proposero un monologo da imparare a memoria che sarebbe stato poi messo in scena alla fine della permanenza nel campo e io ricordo rimasi tutta quella prima notte sveglio per imparare la parte, chiuso in bagno per non svegliare il mio compagno di stanza. Mi ero reso conto in quel momento cioè che memorizzare la parte, recitare corrispondeva a dei giochi che facevo da bambino e che riuscivo a ritrovare una dimensione di gioco all’interno di questa cosa che all’inizio non credevo potesse essere un lavoro ma più un sogno. E anche se dopo, al ritorno a casa, anche se in ogni modo cercarono di convincermi ad abbandonare questo sogno, io ero già perdutamente innamorato dell’arte attoriale.
Oltre che attore lei è anche attore radiofonico (per la “RSI-radio televisione Svizzera”) e doppiatore per film, telefilm, cartoni animanti e videogiochi. Ci sono degli esercizi utili per allenare nel quotidiano la propria voce?
Pratico quotidianamente esercizi di riscaldamento Tai Chi e Qi Gong associati al lavoro attoriale per poi passare a un riscaldamento vocale associato ad altre tecniche imparate a cui da poco ho aggiunto anche dei vocalizzi visto che, durante il lockdown, ho iniziato a prendere lezioni di canto lirico in previsione del mio debutto musicale a dicembre al Carlo Felice di Genova a con l’operetta “La vedova allegra”.
Nonostante lei sia da anni residente a Milano, è nato nel piccolo paesino pugliese di Alberobello dove ritorna frequentemente per i suoi progetti legati alla ricerca e recupero della tradizione orale popolare. Come riesce a convogliare questo rapporto viscerale con la sua terra in ambito professionale?
Penso che all’interno di un anno, di ciascun anno della propria vita o carriera che dir si voglia, bisogna cercare sempre, con rigore, un equilibrio tra diversi momenti: il momento del lavoro, il momento di studio e di ricerca dove si deve ricevere incessantemente e il momento dov’è infine importante condividere sulla scena, davanti a un microfono o dietro la macchina da presa. Proprio perché sento costantemente questo richiamo alla mia terra di origine, vorrei dedicare quell’ultimo momento del dare e della condivisione alle nuove generazioni, offrendo loro magari una possibilità che io o comunque molti altri non hanno avuto. Sono infatti convinto che ci siano tanti talenti sprecati in Puglia per varie motivazioni spesso legate ad una mentalità ancora troppo ancorata al cattolicesimo e all’incapacità della politica locale di trascendere dagli interessi personali ed economici più piccoli. Ecco perché io ogni anno provo a dedicare un pezzo del mio percorso ad Alberobello collaborando con diverse associazioni autoctone attraverso laboratori di dizione o progetti finalizzati al recupero della tradizione orale popolare. Certo non è ancora facile stabilire prima un calendario e soprattutto scontrarsi con gli impedimenti locali ma non mi arrendo.

Rifacendosi invece alla sua esperienza pedagogica come insegnante di recitazione quali consigli darebbe ad un giovane ragazzo che desidera approcciarsi all’Arte attoriale?
A me piace tantissimo la pedagogia e infatti attualmente conduco dei laboratori in Lombardia e ho collaborato presso l’Accademia americana di Arezzo, prima dello scoppio della pandemia. All’estero ho invece vissuto due delle esperienze che per ora più mi hanno arricchito e formato umanamente: a Nairobi, in Africa, dove tramite la AMREF ho insegnato voce e in Iran dove sono andato in scena nel 2019. In questi luoghi percepisci proprio, rispetto magari all’Italia, quanto sia ostinata quella fame di conoscenza, di voglia di fare. In merito alla domanda sui consigli da dare ai ragazzi che desiderano approcciarsi all’arte attoriale, invece, il mio primo suggerimento è di tenersi informati. Come mi hanno insegnato il primo giorno all’Accademia alla Paolo Grassi, ciò che è fondamentale da sapere riguarda il chiedersi come prima cosa il perché di tutto, dalla scelta di diventare attore fino alla propria posizione nel mondo. A chi desidera iniziare consiglio poi di individuare delle scuole di eccellenza, fare una lista e dopo andare a verificarle di persona visto che l’Accademia scelta sarà il luogo principale degli anni più importanti della propria vita. E magari alcuni di loro invece capiranno che non è quello il tipo di percorso adatto alla propria persona (ci sono tantissime colleghe e colleghi eccezionali che non hanno studiato in Accademia). Io nell’anno in cui ho fatto i provini sono stato ammesso in più Accademie, ad esempio, ma ho scelto la Scuola Civica di Teatro Paolo Grassi per ragioni ben precise, tra le tante perché Paolo Grassi è stato un imprenditore e direttore teatrale che veniva dalla mia terra, da Martina Franca, un organizzatore culturale che aveva tentato di occuparsi della parte più difficile del mondo dello spettacolo ovvero quella capace di creare una realtà in grado di far toccare la parte burocratica con quella artistica. Trovare dei bravi maestri è inoltre fondamentale per comprendere il percorso individuale più adatto da percorrere come attore.

Sulla scia di Andy Serkis collabora inoltre a diversi progetti con l’Università degli Studi di Milano per perfezionare la diffusione della motion-capture anche in Italia. Qual è secondo lei lo stato di salute dell’arte attoriale in Italia oggi?
Il rapporto con gli studi dell’Università di Milano è terminato da un po’ ed era legato essenzialmente all’idea di rendere la Divina Commedia di Dante virtuale durante l’Expo. La mocap in Italia è ancora usata pochissimo e a me piacerebbe tantissimo portare avanti lo sviluppo di questa tecnologia che è invece davvero approfondita in altre Nazioni ma per farlo bisogna trovare le persone giuste e il giusto momento. Invece lo stato di salute attuale dell’arte attoriale in Italia oggi è purtroppo pessimo, soprattutto a seguito della situazione pandemica. Tantissimi colleghi hanno spesso problemi economici perché fare arte in Italia paga pochissimo visto che la maggioranza dei fruitori ha ancora una concezione del teatro legata alla poltrona rossa. Durante la pandemia mi sono per questo motivo unito a “Attrici e attori uniti“, una comunità di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo che sta cercando di affiancarsi al sindacato per dipanare i problemi più pressanti nel nostro ambito oltre che mediare anche con tutti gli altri mestieri legati al mondo dello spettacolo come quelli dei tecnici, ad esempio. Indubbiamente bisogna cambiare delle leggi e continuare a lottare per battaglie come quella -giusto per dirne una- sul riconoscimento sia professionale che fiscale delle formatrici e dei formatori delle Arti e delle Tecniche dello Spettacolo attraverso l’istituzione di un nuovo codice di qualifica IVS nel F.p.l.s./Inps.
Se potesse incontrare uno o più artisti su di una fumante tazza di caffè chi vorrebbe che fossero? E perché?
Questa è una domanda difficilissima. Tantissimi. Uno dei primi -che tra l’altro mi torna in sogno spessissimo- è Robin Williams per la sua competenza e la sua anima e anche perché per me è doloroso immaginare che una persona di quel calibro sia rimasta da sola. Degli artisti ancora in vita che mi piacerebbe incontrare invece Edward Redmayne e Cate Blanchett, attori in grado di trasformarsi tantissimo, capaci di immergersi in personaggi totalmente diversi da loro fino a modificare il modo in cui camminano e in cui parlano come la Blanchett nel film “Manifesto” dove interpreta tredici personaggi diversi o nella magistrale interpretazione di Redmayne in “Les Misérables” di Tom Hooper. E ancora Eschilo che adesso sto studiando in attesa di portare la sua “Orestea” in Sardegna questa estate per la regia di Valentino Mannias. Vorrei chiedergli la sua idea di democrazia nella speranza che fosse ascoltato anche dai politici nostrani. Ne direi altri duemila ma chiudo con due autori visto che in questo periodo, soprattutto in Italia, ce ne sono pochi di davvero bravi e quindi cito Anton Čechov perché secondo me non è stato capito fino in fondo e perché mi piacerebbe che lui vedesse il mondo di oggi per sapere cosa ne pensi, lui che sapeva cucire i personaggi sull’attore con l’occhio allenato del vero drammaturgo e del medico in grado di osservare con precisione millimetrica sia le parti del corpo che del comportamento dell’artista che aveva davanti e infine Tennessee Williams per insegnarmi a trovare il giusto compromesso tra i testi e le pubbliche relazioni.
(Copyright immagine in evidenza: fotografia di Giulia Sirolli)
Categorie:MetisMagazine