Ignazio Licata e Fabrizio Tamburini sono due di quei gemmei ricercatori italiani dal curriculum strabiliante.
Licata è fisico teorico presso l’Institute for Scientific Methodology (ISEM) di Palermo, la School of Advanced International Studies on Theoretical and Nonlinear Methodologies of Physics di Bari e l’International Institute for Applicable Mathematics and Information Sciences (IIAMIS), B.M. Birla Science Centre, Hyderabad, in India. Le sue ricerche riguardano i fondamenti delle teorie fisiche, le origini quantistiche dell’universo e la fisica dell’emergenza, con oltre 200 lavori tra articoli di ricerca e curatele. Tamburini è invece astrofisico presso lo ZKM di Karlsruhe e si occupa di relatività generale, vorticità elettromagnetiche, astrofisica e fisica quantistica, con oltre un centinaio di contributi scientifici e brevetti.
Utilizzando l’esotica “torre di Majorana”, un’equazione ideata nel 1932 dal geniale Ettore Majorana (fisico del gruppo di Fermi misteriosamente scomparso tra Palermo e Napoli nel 1938), insieme i due scienziati sono riusciti a penetrare l’apparente casualità dei numeri primi in un’indagine di alta alchimia matematica e fisica contenente una moltiplicazione di immagini in grado di sollecitare qualsiasi immaginazione borgesiana.
E proprio per rendere più nitido questo lavoro e sfidare il labirinto delle formule che oggi, in collaborazione con la scrittrice ed editor Emanuela Cocco, abbiamo intervistato per voi Ignazio Licata, scienziato capace di ricordarci che la matematica, così come asseriva il fuggiasco Endor ne ‘La stella di Ratner’ di Don De Lillo,
“È l’unica avanguardia rimasta nell’intera repubblica delle arti. È arte pura, ragazzo. Arte e scienza. Arte, scienza e linguaggio. Arte come l’arte che un tempo chiamavamo arte. Perse le ali dopo che i babilonesi vennero meno. Ma poi riemerse con i greci. Si inabissò nell’età oscura. Musulmani e Indú la tennero in vita. Ora però è tornata a splendere come non mai”.

Iniziamo dai fondamentali. Cosa sono i numeri primi?
Eviterò di iniziare dicendo che sono numeri interi positivi con soltanto due divisori distinti, perché suona già molto formale, e non specificherò divisibili solo per 1 o per se stessi, perché è quello che sappiamo tutti dall’aritmetica. La sequenza inizia con 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 29, 31, 37…Inizierò da una cicala nordamericana, la Magicicada septendecim, le cui ninfe vivono sottoterra per 13 o 17 anni, a seconda delle specie, prima di uscire. Sono numeri primi e non è un caso perché è stato dimostrato che seguire questi cicli permette alle due specie di non incontrarsi e dunque competere almeno per 221 anni, che è il minimo comune multiplo tra 13 e 17. Secondo un lavoro ormai classico di alcuni studiosi brasiliani guidati da Paulo R. A. Campos, “The emergence of prime numbers as the result of evolutionary Strategy” del 2004, sembra che i primi siano dietro molte strategie evolutive. Sono numeri piuttosto scontrosi che tendono a raggrupparsi tra loro. Ma sono anche numeri potenti perché si sa dal tempo di Euclide che è possibile esprimere ogni intero positivo come prodotto di primi, dunque veri “atomi dell’aritmetica”.
Sembra tutto molto chiaro, un po’ come i numeri di Fibonacci.
C’è però una differenza essenziale. I numeri di Fibonacci, come ogni altra cosa nel sistema numerico, seguono regole molto semplici. Dopo un numero pari c’è un numero dispari e così via. I primi hanno invece una distribuzione irregolare, impredicibile, quasi aleatoria, caratteristiche che ti aspetteresti di trovare in un sistema fisico e non in una struttura formale. Un infinito irregolare dentro l’infinito tranquillo dei numeri naturali.
Non esiste dunque una formula per calcolarli?
No. Esistono metodi finiti per scovarli, come il famoso crivello di Eratostene, ma nessuna formula che possa dar loro la caccia all’infinito. Dai tempi di Eulero e Gauss si prova a stimare la frequenza con la quale si presentano, formule di distribuzione per trovare i loro raggruppamenti. E qui arriva Riemann.
Finalmente!
Georg Friedrich Bernhard Riemann visse nella metà dell’800, e fu uno spirito affine ai musicisti suoi contemporanei. Personalmente mi ricorda Schumann, appassionato, innovatore, con un occhio all’abisso. Non fu però la mente a tradirlo ma il corpo. Era afflitto da una grave forma di tubercolosi. Scrive il collega e amico Dedekind:
“Il giorno prima della sua morte lavorò sotto un fico, allietato nello spirito dal meraviglioso paesaggio che lo circondava…la vita lo abbandonò dolcemente senza spasmi o agonia…Disse a sua moglie: “Da’ un bacio a nostra figlia”. Sua moglie ripeté assieme a lui il Paternostro; lui ormai non poteva più parlare...”
Non aveva ancora 40 anni. È sepolto a Biganzolo, in Piemonte. Riemann è autore di molti contributi fondamentali, pensa che le sue idee sullo spazio curvo fecero da battistrada alla Relatività Generale di Einstein. Lavorando sui primi mise a punto una formula ingannevolmente semplice sulla loro distribuzione. È basata su una funzione complessa detta funzione Zeta, ed afferma che i primi sono distribuiti come gli zeri (radici) di questa funzione su una striscia critica. Tenete conto che qui abbiamo a che fare con l’infinito, fare i calcoli a quei tempi era laboriosissimo. Lo stesso Riemann ne poté calcolare pochi, ed affermò che questa ipotesi gli sembrava probabile. Con i computer oggi si è arrivati a circa 10mila miliardi, e tutto sembra confermare la congettura di Riemann.

Il punto è: come possiamo essere sicuri che i primi continuino a stare sulla striscia critica anche dopo n miliardi di conferme? Una dimostrazione basata su ragioni strutturali e non si una semplice successione di verifiche dovrebbe darci la risposta. Una buona dimostrazione è l’unico antidoto per l’infinito.
Ma è davvero così importante?
Peggio! Più si studia più lo diventa. La congettura di Riemann è come una ragnatela tesa su tutta la matematica. Se si dimostrasse vera questo avrebbe un effetto a catena su molte altre ipotesi. In più, l’ “irregolarità” dei primi li rende preziosi in crittografia. È, come ha detto qualcuno, il Santo Graal della matematica.
Lei e Fabrizio Tamburini siete fisici. Come siete finiti nel tempio dei matematici?
L’idea è di Fabrizio, che ci lavorava da anni. Ogni tanto mi arrivavano messaggi del tipo “combatto con Riemann!” o “Riemann mi fa diventare matto”. Confesso che lo prendevo in giro, ero convinto che Riemann fosse per matematici puri di altissimo livello, dei Mozart come Terence Tao. Poi un giorno mi ha telefonato e mi ha parlato delle possibili connessioni con la torre di Majorana. Allora ho visto, è stata la mia via di Damasco.
Il secondo ingrediente: la torre.
Nel 1934 il problema della fisica teorica era quello di fondere la relatività ristretta e la Meccanica quantistica, dare uno spazio-tempo alle particelle conosciute, che allora stavano nelle dita di una mano mutilata. Majorana propose un’equazione ad infinite (occhio!) componenti in cui le particelle erano impilate una sull’altra per massa e spin crescenti, da cui il termine torre. Per certi versi somiglia alla teoria delle stringhe: un oggetto fondamentale si presenta a livelli diversi. Un altro approccio, quello di Dirac, ebbe maggior successo, e la torre di Majorana finì nel dimenticatoio, dove è stata tirata fuori recentemente per lo studio dei cosiddetti vuoti strutturati, che sono particolari configurazioni che si presentano in fotonica o materia condensata. Con Fabrizio abbiamo mostrato come in certe condizioni i fusilli di luce (OAM Orbital Angular Momentum) si distribuiscono secondo la torre.

Una passione comune per Majorana?
Sì, è uno degli ingredienti che ci lega. Riguarda l’eredità fisica di Ettore e la sua attualità, non tanto il “giallo” della scomparsa. Piuttosto mi affascina la narratologia sulla scomparsa. È come se Majorana scomparendo fosse caduto in una macchina delle storie come quella de “La Città assente” di Ricardo Piglia. E poi scorgo alcuni tratti del carattere che come siciliano riconosco, e rivelano tanto. Ci sto scrivendo qualcosa.
Gli ingredienti ci sono, siamo arrivati alla vostra scoperta Riemann- Majorana, giusto?

Qui dovrò essere più stringato e generico che nei punti precedenti. Chiedo perdono al lettore matematico che rimando al nostro “Majorana quanta, string scattering, curved spacetimes and the Riemann Hypothesis“. Va detto che una funzione complessa corrisponde ad un comportamento ondulatorio, ed è noto che un sistema quantistico ubbidisce ad un dualismo onda-particella.
L’idea di legare l’ipotesi di Riemann a soluzioni di problemi di fisica matematica è nata da una discussione fra i due matematici Hilbert e Pòlya dove si sosteneva che per dimostrare l’ipotesi di Riemann bisognava trovare un particolare sistema fisico descritto da una funzione, un operatore, i livelli energetici del quale corrispondevano agli zeri della funzione zeta di Riemann. In ogni caso, il fatto di non trovare questa ipotetica funzione non implica che l’ipotesi di Riemann non sia comunque valida. Può esserlo anche indipendentemente dall’esistenza o meno di questo operatore. Questa idea ha preso una forma più concreta negli anni ’80, soprattutto ad opera di Sir Michael Berry, è sorta una specie di “fisica dell’ipotesi di Riemann” nata da una ipotesi in cui si è visto che la funzione di Riemann descrive in modo molto realistico livelli energetici di forme d’onda, come le vibrazioni di un tamburo o gli stati eccitati di un gruppo di atomi. Noi abbiamo utilizzato il modello fisico della torre, la matematica delle stringhe e la relatività di Einstein ed abbiamo trovato una corrispondenza tra le finestre particellari della torre e gli zeri di Riemann. Le particelle sono poche ed i primi infiniti, dunque è stato decisivo l’uso della matrice S, un oggetto che descrive tutte le interazioni tra le particelle per ottenere infiniti eventi. È chiaro che si tratta di un modello puramente matematico che non pretende di avere un immediato significato fisico. Nella realtà fisica sappiamo che c’è un limite allo ‘spezzettamento’ della materia e dello spazio-tempo. Ci stiamo dedicando proprio a questo, indagando distribuzioni frattali ed un modello di spazio-tempo a blocchi sulla scala di Planck. Detto in altri termini quanto una finestra della torre è piccola.
Esiste dunque un collegamento molto stretto tra mondo fisico e matematico?
Sì, ed è strano almeno quanto il caso della Magicicada septendecim. Sono stato sempre un costruttivista in matematica, ma questo risultato mi ha turbato profondamente, pur senza convertirmi alla fede platonista. Se è vero che “Dio ha fatto i naturali, il resto è opera dell’uomo” (Kronecker), dobbiamo ammettere che la prima forma di fisica è costituita dal contare gli oggetti e stabilire una corrispondenza tra insiemi e numeri. Scopriamo poi che tra questi ci sono numeri, come quelli di Fibonacci, che definiscono geometrie ricorsive presenti in natura come nella riproduzione delle api, l’andamento dei titoli di borsa o certe simmetrie nei composti chimici. I numeri primi ci rivelano le preferenze dei sistemi quantistici sui livelli energetici, rivelando una straordinaria somiglianza tra gli “atomi” fisici e quelli puramente formali.
(Copyright immagine in evidenza: Ignazio Licata fotografato da Dino Pedriali)
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