The great resignation è l’ondata di dimissioni di massa post Covid, fenomeno che riguarda non solo gli Stati Uniti e la Cina, ma inizia ad affacciarsi timidamente anche in Italia. Nonostante l’Italia sia il paese con il tasso di occupazione più basso in Europa, e la domanda non viene soddisfatta dall’offerta. Non tanto dal punto di vista numerico, ma per le condizioni precarie, e in più di un’occasione svilenti per il lavoratore, che l’offerta offre.
Secondo gli ultimi dati ufficiali forniti dal Ministero del Lavoro, che si riferiscono al secondo trimestre dell’anno corrente, anche in Italia si evidenzia un aumento del numero delle dimissioni.
Lasciare il proprio impiego è diventata una decisione condivisa mossa da nuove considerazioni sul mondo del lavoro, le aspirazioni professionali e il concetto di carriera.
La pandemia non ha fatto che accelerare un processo già in corso, ha infatti spinto molti a ripensare al proprio modello di vita e alle contraddizioni di una cultura del lavoro che tende a mettere al primo posto produzione e profitto, sacrificando la qualità della vita e il benessere fisico e psicologico delle persone.
Se la disoccupazione è uno dei grandi temi che preoccupano Millennials e GenZ in Italia, lo sono a pari merito anche l’ambiente e la salute. Sulle condizioni di salute incidono fortemente i livelli di stress, quindi torniamo all’origine del discorso: la grande dimissione.
Le ragioni di questo fenomeno hanno a che fare con diverse ragioni, gli eccessivi carichi di lavoro, lo smart-working che ha modificato la visione lavorativa di molti, il burnout diffuso, ma soprattutto con il punto di rottura raggiunto dai lavoratori nei confronti delle condizioni lavorative (contratti precari, tutele inesistenti, luoghi di lavoro con poco organico, stipendi non corrispondenti alle effettive ore lavorative).
Prende, infatti, piede il concetto di Yolo Economy (You only live once, si vive una volta sola,ndr). Oltre che delle condizioni lavorative adeguate, si cerca un senso in quello che si fa e delle condizioni di vita migliori.
È proprio la Generazione Z a non voler sottostare a queste dinamiche e richiedono condizioni migliori sul posto di lavoro, come un’adeguata ripartizione delle mansioni, una retribuzione basata sui risultati raggiunti e non sul monte ore. Una presa di posizione che spaventa i Millennials, abituati a giornate sovraccariche di lavoro e ossessionati dal posto fisso.
Così lasciare il lavoro diventa una notizia da condividere e festeggiare sui social.
Quella che è sempre stata una notizia condivisa con il capo e poche altre persone, diventa di dominio pubblico. Questo tipo di condivisione è una forma di denuncia e di non accettazione di quelle dinamiche che hanno reso il mondo del lavoro così precario.
Sicuramente il job hopping spinge a cercare nuove opportunità, estendendo i propri orizzonti, e prestando attenzione a ciò che realmente si vuole ottenere. Dal lavoro, in primis, ma soprattutto dalla propria vita.
La Gen Z ci insegna ad avere coraggio e a rivedere i propri traguardi, come festeggiare per aver abbandonato un ambiente lavorativo tossico.
Cambiare lavoro, nel periodo storico di transizione economica che stiamo vivendo, dovrebbe essere naturale. Continuare a trovare degli ostacoli oggettivi, e dei ricatti occupazionali, sottolineano la precarietà di questo sistema evidentemente tuttora ancorato al capitalismo.
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